Oggi i media costruiscono e filtrano la realtà. Uno scenario profetizzato dal cinema moderno degli anni Sessanta, in cui non esiste più una realtà oggettiva. L’illusione di realtà, per essere precisi, viene smascherata da una semplice dichiarazione: “ciò che vedete è finzione”. Una farsa giocosa che permette di trasmettere messaggi e interpretazioni sul mondo e che nella contemporaneità, costellata di ibridazioni continue, si è evoluta in realtà virtuale. Quest’ultima non sarà vera, ma può avere effetti sulla vita di tutti i giorni. Proprio per questo motivo non è più così complesso credere in valori che provengono dal mondo virtuale, fittizio, costruito dei media. Il difficile sta nel padroneggiare la finzione e la tecnica per riprodurre il reale e il virtuale, e magari fondere le due dimensioni in qualcosa di inedito e rivoluzionario.
Non tutti sono capaci di esercitare questo tipo di controllo “tentacolare” sui media, ma esiste un artista, un creativo dalla mente caleidoscopica e geniale, che spicca nella massa eterogenea di game designer per il suo talento indiscusso e le sue idee che, in un modo o nell’altro, sono riuscite a far breccia nello status quo dell’industria videoludica più e più volte. Il suo nome è Hideo Kojima. Una figura quasi mitica che, dopo la sua turbolenta separazione da Konami, è tornata a far parlare di sé a più riprese, prima con il sovversivo e affascinante Death Stranding e in seguito con misteriosi progetti come OD e Physint.
Uno come Kojima tuttavia non si accontenta mai, ed è per questo che, in maniera del tutto inaspettata, ha deciso di legarsi al regista Glen Milner per la produzione di un documentario uscito su Disney+ (ma non ancora in Italia) che lo vede protagonista, ovvero Hideo Kojima: Connecting Worlds. Cosa c’è da aspettarsi da un prodotto del genere? È una banale trovata di marketing o cela qualcos’altro?
È importante sottolineare sin da subito che il lungometraggio non è un bignamino che riassume vita, morte e miracoli del papà di Metal Gear, bensì un’opera che fonde il resoconto di un momento specifico della sua carriera – la lavorazione di Death Stranding – e una nutrita raccolta di interviste, atte a tessere con precisione un quadro della “filosofia kojimiana“, come viene chiamata nei saggi di settore e sul web.
Sorprende scoprire, infatti, che le riprese del lungometraggio hanno avuto inizio addirittura nel 2016, quando Kojima aveva appena inaugurato la Kojima Productions nel quartiere Minato di Tokyo, diventando di fatto indipendente; indipendenza che gli ha finalmente permesso di non dover più scendere a compromessi. Interessantissime, a questo proposito, le immagini esclusive del trasloco dei dipendenti e degli uffici spogli – situati proprio di fianco al quartier generale di Sony – prima che prendessero vita e colore.
Parlando proprio di Sony, il documentario – attraverso le parole famoso giornalista Geoff Keighley – testimonia efficacemente come la compagnia, sin da subito, abbia avuto cieca fiducia in Hideo, dal momento che le sue dichiarazioni possono essere sintetizzate con: “non abbiamo nemmeno bisogno di sapere che gioco realizzerai, ecco i soldi”. Col senno di poi una tremenda arma a doppio taglio, viste le risposte assai miste dell’utenza PlayStation al rilascio di Death Stranding nel 2019, dopo una fumosa campagna marketing durata tre anni.
Connecting Worlds illustra lo sviluppo del gioco attraverso scene e contributi che raccontano retroscena già ampiamente noti e condivisi da prodotti audiovisivi precedenti (come uno speciale della BBC). In questo, il documentario di Milner purtroppo si dimostra meno accattivante del previsto. Fortuna vuole che gli interventi di Kojima stesso, riguardanti suggestioni e idee embrionali datate 2015, risultino ben più stimolanti.
Altrettanto stuzzicanti sono alcuni retroscena inediti che mostrano l’estrema attenzione al dettaglio di game director e colleghi, che spesso si trovano a confrontarsi su elementi di gameplay apparentemente insignificanti – e sottolineo apparentemente – come il suono prodotto da un determinato oggetto o la sfumatura di colore da dare a un simbolo dell’interfaccia utente.
Interessanti anche degli estratti, anch’essi mai visti, girati in teatro di posa a Los Angeles dove attori come Norman Reedus (The Walking Dead), Troy Baker (The Last of Us Parte II), Tommie Earl Jenkins, Léa Seydoux (Crimes of the Future, Dune: Parte Due) e Mads Mikkelsen (Un altro giro, La Terra Promessa) leggono la sceneggiatura del gioco e si lanciano in sessioni di motion capture o doppiaggio. Fa ridere vederli talvolta confusi mentre cercano di assorbire e interpretare le proposte tanto bizzarre quanto affascinanti di Kojima, un regista dalla verve certamente contagiosa e ispiratrice.
Un interprete come Reedus, per esempio, è stato coinvolto da Guillermo del Toro (La Fiera delle Illusioni, Cabinet of Curiosities) senza sapere nulla del suo ingaggio e per questo esatto motivo – come sottolinea Troy Baker – il punto cardine di un medium profondamente astratto come il videogioco è proprio la già citata fiducia, nelle idee e nelle persone. Più questa cresce, più si riesce a trainare un progetto insieme. Mikkelsen, in ultimo, rimarca l’importanza di sentirsi “al sicuro” durante lavori delicati di questo tipo: “[È rassicurante] poter osservare Hideo in un angolo del teatro, nel bel mezzo del suo processo creativo, e sapere di essere in buone mani“.
È in questi frangenti che Kojima si sbottona maggiormente, parlando più nello specifico del succitato processo creativo. Se nei titoli di testa di un videogioco compare “A Hideo Kojima Game” vuol dire che l’autore giapponese è coinvolto in ogni aspetto di quel prodotto, dal gameplay puro alla sceneggiatura, passando per il montaggio sonoro; “come se ci si trovasse catapultati nel suo mondo che ha costruito per noi” – riflette il cineasta Mamoru Oshii (Patlabor, Ghost in the Shell). I suoi giochi, secondo una filosofia comune anche al celeberrimo Gabe Newell, devono puntare a essere rivoluzionari in qualche modo. In un’industria piena di remake stantii, la Kojima Productions tenta instancabilmente di dare vita a opere che possano essere dei punti di svolta per il mercato o per il modo di concepire il medium.
“I videogiochi in voga oggi hanno atmosfere hollywoodiane: azione al cardiopalma, sparatorie, violenza… Molti giochi si somigliano così tanto tra loro che è impossibile distinguerli guardando le loro cutscene! Più un titolo è nuovo, più fa paura” – afferma Hideo Kojima. Nel tentativo continuo di reinventarsi per comunicare al meglio i messaggi che ha a cuore, segue una regola d’oro: “lasciare ai giocatori lo spazio per pensare“. Non sorprende quindi che tre dei suoi registi preferiti siano David Lynch, Stanley Kubrick e David Cronenberg: autori capaci di essere di nicchia mantenendo allo stesso tempo un forte appeal per il pubblico medio. Creatori divisivi per l’audience ma che, alla fin fine, riescono a “rimanerti attaccati addosso per sempre“, a differenza di molti altri.
“70% of my body is made of movies” dice l’artista nipponico, per lui il cinema è come il Sole: vive della sua luce “come una pianta durante la fotosintesi, perché i suoi raggi stimolano le mie cellule e ispirano nuove creazioni“. Ciò evidenzia – come se ce ne fosse davvero bisogno – quanto il protagonista del documentario sia sempre stato sin da bambino “una spugna per l’arte“, come afferma Shin’ya Tsukamoto (Tetsuo, Nightmare Detective), regista del Sol Levante presente nel cast del docufilm. Hideo assorbe avidamente da ogni forma di intrattenimento: libri – tanti libri, di fantascienza soprattutto – musica, fumetti e così via, per poi rielaborare quanto appreso e rigettare tutto nei suoi progetti.
Durante la realizzazione di un gioco bisogna badare a programmazione, direzione artistica, storytelling, sound design, interattività e tanto altro. Per Kojima tutto ciò è un meccanismo assai complesso da gestire, dal momento che ogni giorno genera nuove sfide da risolvere, croce e delizia di ogni artista. Con ilarità, il game director racconta che spesso occorre persino prestare attenzione a duecento problemi alla volta e, quando qualcuno di questi rimane irrisolto, “cerco di fare bug checking nei miei sogni mentre dormo!“.
Fortunatamente non è solo lui a doversi occupare di tutto, dato che può contare su numerosi capireparto che, con mia piacevole sorpresa, condividono le loro esperienze tra un’intervista e l’altra: a parlare sono il music artist Daichi Miura, il lead level developer Hiroaki Yoshiike e lo story lead Kenji Yano (braccio sinistro di Kojima, laddove Yoji Shinkawa è il destro); presenze preziose considerando che è difficile, se non impossibile, reperire loro testimonianze altrove. Testimonianze da cui traspare un dato importante: il loro capo lavora sempre a stretto contatto con i dipendenti, una rara eccezione nell’industria. Importantissimi, per esempio, sono i meeting che organizza periodicamente con tutte le maestranze per la correzione di errori e la gestione del workflow. Tutti episodi concreti della vita in ufficio che è davvero bello scoprire grazie a Connecting Worlds.
Alle riprese presso Kojima Productions si alternano degli intermezzi girati in pellicola Kodak da 16mm, curiosi collage dall’estetica granulosa che abbelliscono il montaggio, donandogli attimi di respiro. In questi frangenti, Hideo Kojima viene mostrato presso i suoi luoghi del cuore come l’isola di Enoshima o il quartiere di Setagaya a Tokyo. Sono dei momenti in cui si scende in una dimensione più intima dell’autore, con quest’ultimo parla della sua giovinezza, del rapporto con i genitori – soprattutto con il padre che ha perso quando era adolescente – e di cosa volesse dire essere un ragazzo del Kansai tanto esuberante quanto solitario e malinconico.
Per discutere più approfonditamente del rapporto tra creatività e industria, sono state chiamate a raccolta molte personalità illustri legate al buon Hideo: da cineasti come George Miller (Mad Max: Fury Road) e l’immancabile Nicolas Winding Refn (Drive, Copenhagen Cowboy) a musicisti come i Chvrches, Grimes e Woodkid. Proprio quest’ultimo afferma che una grande qualità del lavoro di Kojima sta nel fare costante riferimento, cosciente e sensato, ad altre forme d’arte. Difatti, una bellissima sezione del docufilm mostra un meeting della Kojima Productions che vede i dipendenti confrontarsi attraverso domande apparentemente sconnesse dal lavoro in corso, come “Chi è appassionato di Van Gogh?“. Quesiti inusuali in ottica videoludica, ma – come è palese – fondamentali per definire la direzione artistica.
“All’audience non puoi dare sempre quello che vuole, ogni tanto devi far capire al pubblico che desidera qualcosa che non conosce ancora” – dice Woodkid. Il rischio da correre è ovviamente il rifiuto da parte del pubblico di certe idee radicali o troppo innovative. “Un rischio che, tuttavia, va abbracciato per ottenere una ricompensa inestimabile: cambiare il medium in cui, con cui e per cui lavori” – incalza Miller. Al giorno d’oggi essere originali è difficile, quindi molti preferiscono affidarsi agli algoritmi, i veri avversari della creatività che Hideo Kojima combatte strenuamente da sempre.
In Connecting Worlds trova spazio persino il grande Shinji Mikami – il padre di Resident Evil – che ne approfitta per rimarcare nuovamente la testardaggine del collega, un uomo che non scende mai a patti con nessuno, nel bene e nel male. Riflettendo su questo, Refn scherza: “Hideo gioca alla roulette russa con sei proiettili in canna anziché uno solo“. Perché sa benissimo che anche il videogioco è arte e in quanto tale arricchisce lo spirito umano. L’obiettivo ultimo non è compiacere il fruitore, non sempre almeno: l’arte nasce per ispirare, provocare, intrattenere. I giochi sono storie e le storie rappresentano un tentativo fondamentale di dare una spiegazione al mondo che ci circonda e alla nostra esistenza in esso.
Tre mesi dopo il lancio di Death Stranding, il mondo è dovuto scendere a patti con la terribile pandemia di COVID-19. Ciononostante, alla Kojima Productions sono giunti messaggi di complimenti da parte di persone che si confessavano scrivendo “questo gioco mi ha salvato“. Indirettamente, l’ultima fatica dello studio ha connesso tra loro giovani e adulti, permettendo loro di sfuggire alla quarantena. Ecco che emerge il vero obiettivo di Kojima, la motivazione che lo spinge a creare ogni giorno: unire.
Ripensando al biennio 2019-2020, Yoji Shinkawa dice la sua: “Trovo curioso che la società segua sempre la strada tracciata dagli scenari che creiamo nei nostri giochi, subito dopo che questi sono stati rilasciati. È come se fossimo dei profeti e mi fa paura“. Se ben ricordate, Death Stranding venne “accusato” di aver previsto in tutto e per tutto l’avvento del Coronavirus e dei vari lockdown, quasi come se Kojima e compagni fossero dei novelli Nostradamus. In queste illazioni stravaganti c’è qualcosa di vero: l’artista con la “A” maiuscola, sa inserirsi perfettamente nello status quo in cui vive, per narrarlo, criticarlo e, spesso, per prevedere le sue evoluzioni anni prima, come un avanguardista. Non c’è evoluzione culturale senza rinnovamento, e va da sé che quest’ultimo richieda un enorme coraggio.
In rete si è discusso abbastanza di questo documentario e le voci più negative – perlopiù detrattori di Hideo Kojima – lo etichettano come una spudorata e malcelata pubblicità a Death Stranding così come un’autocelebrazione di Kojima Productions. Evitando di farsi condizionare da critiche stantie ci si rende facilmente conto, invece, dell’efficacia con cui questa pellicola sonda l’uomo prima ancora del personaggio, insieme alla sua filosofia autoriale (che spicca per il suo strenuo pacifismo, misto a un instancabile eclettismo).
A ripagare della visione – oltre a quanto detto finora – sono le “kojimate” mai condivise in precedenza, accompagnate da materiale di repertorio di eccellente qualità e inserti animati dallo studio D’ART Shtajio, montati poi dall’ottima mano di Alex Elkins. La durata complessiva di 1 ora precisa è, a mio parere, sia un punto a favore, sia l’aspetto più debole del film: se è vero che la narrazione scorre piacevolmente, dispiace che sia così tanto condensata e non approfondisca certi aspetti fondanti della carriera del padre di Metal Gear. Certo è che, all’estremo opposto, realizzare un lungometraggio che riassumesse in maniera pedante la sua vita, tappa per tappa, sarebbe stato poco stimolante e, soprattutto, superfluo (data la mole infinita di informazioni reperibili ovunque).
Hideo Kojima: Connecting Worlds non è una full immersion nell’universo kojimiano, ma rappresenta un’occasione accattivante per conoscere un mostro sacro della storia videoludica nella sua veste più attuale e moderna. La regia di Glen Milner, tra occasionali slow motion e sequenze animate tanto inaspettate quanto graziose, tradisce una chiara riverenza per il suo soggetto. Il risultato finale è una lettera d’amore per una delle più grandi menti dell’era contemporanea. Un genio che non crea né film, né giochi, ma mondi interi da esplorare, universi narrativi in cui player e cultura pop entrano in una connessione indissolubile.
Commenta per primo
Questo sito è protetto da reCAPTCHA e si applicano le Norme sulla Privacy e i Termini di Servizio di Google.