Pacific Drive, tra survival e motori ruggenti (PC)

pacific drive videogame

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Febbraio è stato un mese ricco di uscite interessanti per il mercato videoludico. Tra un Granblue Fantasy: Relink e un Helldivers 2 si è timidamente fatto spazio Pacific Drive, opera prima del piccolo studio indipendente Ironwood Studios – fondato nel 2019 a Seattle – nonché esperienza peculiare per gli amanti dei survival game. Il titolo, infatti, intende rivoluzionare parzialmente la formula già ampiamente rodata del genere, aggiungendovi una componente inedita: la guida.

Pacific Drive – come da nome – ci lancia nel Pacifico nord-occidentale, una regione geografica dell’America settentrionale nota anche come Cascadia. A bordo di una scalcagnata station wagon, il nostro compito è quello di indagare su avvenimenti misteriosi e paranormali che coinvolgono la cosiddetta Penisola Olimpica, un grande braccio di terra dello Stato di Washington. Le cose, ovviamente, si mettono male sin da subito e l’obiettivo diviene soltanto uno: sopravvivere.

La storia prende piede nel 1998, mentre il protagonista di cui vestiamo i panni, noto semplicemente come The Driver, sta guidando nei pressi del possente muro di cinta che separa la Zona – in inglese Olympic Exclusion Zone – dal resto degli Stati Uniti. Come accade in Stalker, il celebre film di Tarkovskij, la summenzionata Zona è teatro di eventi che sovvertono le normali leggi naturali e fisiche. L’area pare abbandonata da diversi anni, molte sono le dicerie che aleggiano: si parla di perversi esperimenti e misteriose sparizioni, ma nessuno sa cosa sia realmente accaduto alla Penisola Olimpica.

pacific drive guida

Durante l’escursione che dà inizio alle vicende, la nostra auto viene inspiegabilmente risucchiata all’interno della Zona e fatta esplodere in mille pezzi. Il pilota, stordito, si fa largo in campi rigogliosi ma desolati per cercare aiuto ed ecco una sorpresa: la macchina ricompare davanti ai suoi occhi, malconcia ma funzionante. Alla radio tre voci si accavallano ansiose: sono Tobias Barlow, Francis Cooke e Ophelia Turner (detta “Oppy”), un trio di sopravvissuti che abita, suo malgrado, all’interno della Zona.

Ciò che è accaduto, spiegano gli scienziati, è semplice: l’auto, entrando in contatto con la Zona, si è trasformata in un Remnant, un essere senziente capace di attraversare la vasta area proteggendo il suo pilota. Oppy non si lascia sfuggire l’occasione e, supportata dai due colleghi, propone un piano: raggiungere le profondità della Olympic Exclusion Zone, chiamate The Well (Il Pozzo), così da trovare un modo per fuggire tutti insieme. Subnautica ha fatto scuola.

Con l’avanzare dell’avventura, queste semplici premesse di trama conducono, ovviamente, a sviluppi più interessanti. Si approfondisce soprattutto il ruolo dei coprotagonisti, legati all’organizzazione ARDA, una compagnia che – come l’Hawkins National Laboratory di Stranger Things – ha compiuto studi al limite dell’umano sulla tecnologia LIM, scoperte altamente instabili che hanno creato non pochi problemi a Washington.

pacific drive zona

La narrazione, similmente a quanto visto in un titolo come Firewatch, si sviluppa attraverso numerosi dialoghi che hanno luogo mentre si guida e si esplora. Non solo: durante le indagini nella Zona è possibile rinvenire registrazioni e documenti appartenenti a un quarto personaggio, la giornalista Chiaki Saruhashi, ricchi di informazioni che giovano alla lore. Tutti questi materiali possono essere conservati all’interno di un PC collegato ad un fax, così da consultarli a proprio piacimento. Il suddetto fax, inoltre, trasmette di tanto in tanto dei messaggi criptici che infittiscono la storia.

Personalmente ho trovato un po’ complesso seguire lo sviluppo delle vicende, complice la difficoltà nel comprendere le parole dei personaggi durante il gioco, dal momento che certe discussioni o monologhi avvengono nel bel mezzo di sezioni molto concitate in cui evitare decine di ostacoli e i pericoli presenti nell’ambientazione. Guidare e ascoltare chi parla allo stesso tempo è un’operazione assai complicata che finisce, spesso e volentieri, per confondere (come d’altronde accade nella vita reale).

Non aiuta la missione conclusiva, decisamente anticlimatica, essendo un banale riassunto degli avvenimenti antecedenti alla nascita della Zona di Esclusione. Il finale aperto poi lascia dell’amaro in bocca, confermando che le ottime potenzialità della storia non vengono mai stratificate a dovere. Si preferisce chiuderle in maniera sbrigativa, a tarallucci e vino, con il susseguirsi di eventi blandi e dimenticabili.

pacific drive pioggia

Per quanto riguarda il gameplay vero e proprio, ci si trova davanti a un survival che sfrutta meccaniche rogue-lite e che divide la progressione in tre fasi: pianificare il proprio viaggio e sistemare l’attrezzatura a disposizione, esplorare la Zona alla ricerca di risorse e materiali, sopravvivere alle varie minacce per fare ritorno alla base (dopo aver completato le missioni di trama ovviamente). Queste ultime, coerentemente con il sistema di guida, si presentano come lineari fetch quest o passaggi dal punto A al punto B, scanditi dal tempo limitato a disposizione nel corso di ogni indagine. A questo proposito, al termine di ogni incarico scoppierà una tempesta radioattiva da cui fuggire andando a tavoletta, se si vuole evitare che la station wagon finisca a brandelli.

La già citata base che accoglie il pilota dopo ogni run non è altro che il vecchio garage di Oppy, un luogo d’importanza primaria perché dà la possibilità di riparare e personalizzare l’auto in base alle proprie esigenze. Proprio queste due azioni differenziano Pacific Drive da altri giochi affini: a dover essere potenziato è un veicolo, non il personaggio giocante.

Questo concept, insieme alla direzione artistica, è il fiore all’occhiello dell’opera targata Ironwood Studios: l’idea che un’auto possa diventare l’alleato più prezioso su cui contare – quasi una casa da tenere sempre sotto controllo – è davvero stuzzicante e riserva molte soddisfazioni, specialmente nelle fasi avanzate dell’avventura.

pacific drive ponte

La Zona infatti è divisa in tre macroaree, come se fossero dei gironi danteschi. Queste “fasce” non solo presentano anomalie e insidie di difficoltà crescente, ma sono anche strutturate in maniera diversa: la prima è composta prevalentemente da boschi e radure, la seconda da vasti laghi e strade sconnesse, la terza da crepacci, palazzi in rovina e campi radioattivi. È quindi indispensabile rendere l’auto una fortezza inespugnabile, adatta a percorrere il maggior numero di chilometri possibile, senza dimenticare di inserire nel cofano e nell’inventario dei particolari attrezzi, utili all’estrazione di risorse.

La mappa, con cui pianificare il percorso di ogni run, divide la Penisola Olimpica in checkpoint numerati (o giunzioni, che dir si voglia): ogni macroarea presenta un numero finito di nodi e per raggiungere la successiva, fino al Pozzo finale, è necessario sbloccare piano piano certe giunzioni in sequenza. Per esempio, se dal checkpoint E1 si vuole arrivare a F2, occorre attraversare tutte le giunzioni che collegano i due punti, senza possibilità di saltare da un luogo all’altro.

All’inizio del gioco è possibile selezionare poche giunzioni alla volta, per viaggi più brevi. Potenziare il garage, naturalmente, permette traversate più lunghe e pericolose, nonché spostamenti più rapidi. Peccato per l’eccessiva legnosità di tutto il sistema che obbliga il giocatore ad attraversare certi checkpoint di continuo, senza poterli skippare. Ciò vuol dire che per raggiungere la terza macroarea – la più lontana – bisogna per forza passare in mezzo a tutti i nodi precedenti, data la mancanza del viaggio rapido.

pacific drive auto

Il Route Planner, un radar con cui interagire per definire i viaggi, è dotato di una schermata assai dettagliata che fornisce dati utili per sopravvivere: il terreno presente nell’area, i nemici che la popolano, le condizioni atmosferiche, la rarità dei drop e così via. È compito del giocatore, scansionando anomalie e oggetti di interesse, aumentare la quantità di informazioni disponibili per ogni nodo, tornandoci periodicamente.

La topografia dei suddetti nodi, pur rimanendo fedele alle indicazioni della mappa, cambia randomicamente dopo ogni viaggio, palesando la natura rogue-lite del titolo. Non solo: le giunzioni visitate diventano instabili dopo il nostro passaggio; rimetterci piede subito è quindi rischioso, poiché si potrebbe incappare in tempeste o disastri naturali.

Le condizioni avverse da affrontare con l’auto sono diverse: dalle piogge acide al vento forte con fulmini e saette, passando per pianure da brivido, completamente immerse nel buio pesto. Senza dimenticare mostruosità di vario genere come manichini esplosivi, cumuli di rottami senzienti, pilastri rocciosi che sbucano dal terreno, spiriti capaci di impossessarsi dell’auto e altri “simpatici” esseri. Ecco perché è importante dotare la vettura di pezzi resistenti e upgrade all’avanguardia. Improvvisarsi meccanico non è mai stato così divertente.

pacific drive auto riparazione

Paraurti, sportelli, pannelli, pneumatici, fari… sono tutte parti intercambiabili che hanno un loro ruolo preciso. Cambiare le gomme – per esempio – influisce sull’aderenza in caso di pioggia o migliora il grip su strade dissestate, mentre un cofano blindato protegge meglio il motore che, se danneggiato, potrebbe spegnersi nel momento peggiore. Non bisogna dimenticare, inoltre, di tenere d’occhio la batteria e la benzina, due dettagli che ho molto apprezzato.

Come ogni survival che si rispetti, Pacific Drive offre vari potenziamenti sbloccabili – i blueprint – divisi in molteplici alberi che contengono sia aggiornamenti per la vettura (porte isolate anti-radiazioni, fari antistatici, paraurti con poteri speciali…), sia arredamenti per rendere più performante il garage (armadietti per stipare le risorse, tavoli da lavoro, un riciclatore per i drop inutili…). I fanatici del completismo hanno pane per i loro denti.

Un ulteriore dettaglio che inspessisce il gameplay è rappresentato dalla gestione dei danni che l’automobile può subire: la carrozzeria – se troppo fragile – assorbe gli urti curvandosi, i finestrini si spaccano, le ruote si bucano, il motore potrebbe cominciare a perdere benzina, le parti elettriche potrebbero invece andare in corto… tutti accorgimenti che rendono il gioco piacevolmente realistico.

pacific drive auto abbandonata

Ecco che, di fronte a una povera carretta da rattoppare, entrano in scena gli attrezzi citati in precedenza. All’interno della Zona si è spesso chiamati a effettuare riparazioni al volo, invischiati in luoghi dimenticati da dio e attanagliati da minacce continue. Piedi di porco, tenaglie per rubare pezzi dalle carcasse di altre auto abbandonate, martelli pneumatici, seghe circolari, torce e flare gun sono solo alcuni degli strumenti che aiutano il protagonista a rimediare le risorse di cui ha bisogno e a sistemare la macchina quando necessario.

Il neo di tutta la faccenda sono alcuni upgrade abbastanza peculiari di cui è difficile comprendere i funzionamenti, visto che non vengono spiegati a dovere dai tutorial. A dirla tutta, il gioco stesso – sin da subito – lancia addosso all’utente una miriade di informazioni da memorizzare, insieme a un’interfaccia piena zeppa di icone e indicatori. Fortuna che, superato lo shock iniziale, si riesce a memorizzare ogni cosa in fretta.

Un altro buffo elemento di gameplay inizialmente poco intuitivo sono i quirk. Come è stato sottolineato, la nostra vettura è un essere senziente e ciò significa che, di tanto in tanto, potrebbe assumere comportamenti randomici e spesso indesiderati. Al termine di una traversata i tergicristalli potrebbero animarsi all’improvviso contro la nostra volontà, il clacson cominciare a suonare ogni volta che uno sportello viene aperto, e tanto altro. Individuare tali falle spetta alla Tinker Station, un macchinario del garage il cui funzionamento si basa sulle direttive if-then e che richiede una piccola dose di trial and error per essere adoperato.

pacific drive notte

Nonostante la mole di cose da imparare, questo cugino strambo di My Summer Car gode di una curva di difficoltà progressiva e non troppo ripida: l’avventura incede senza intoppi, a patto che il Remnant venga potenziato a dovere. Non si può certo pretendere di attraversare gli inferi a bordo di un catorcio che assomiglia alla vecchia Bessie di Cars.

Venendo ai difetti che più mi hanno fatto storcere il naso, è d’obbligo sottolineare la palese discrepanza qualitativa che c’è tra core gameplay e gameplay loop. Se il primo è davvero ottimo e per certi versi innovativo, non si può dire lo stesso del secondo, alla lunga ripetitivo e troppo votato al grinding. Questa grossa sbavatura è imputabile a due aspetti: una gestione orribile del loot e il già citato sistema di potenziamenti ad albero, che sembra fare del time abuse il suo motto.

Per quanto riguarda il loot, il problema è riassumibile in quattro parole: poche risorse, sparse male. Che il giocatore si trovi nella prima macroarea o nel bel mezzo di una bolgia infernale, la quantità e la rarità degli oggetti sono sempre le stesse: due stracci e un bullone nei prati fioriti, due stracci e un bullone nel crepaccio più buio e sciagurato. Inutile dire che, per sperare di trovare qualcosa di utile, ci si riduce a raccogliere meccanicamente qualsiasi cosa come disperati (visto che le benedette risorse non vengono segnate in mappa). Un processo che uccide il coinvolgimento e appiattisce il ritmo, proprio come accadeva nel famoso The Forest.

pacific drive mappa

Tale ricerca spasmodica viene aggravata dal fatto che gran parte del bottino viene impiegato per costruire oggetti indispensabili dalla durata limitata (banalmente si consumano con l’uso e, per giunta, non sono acquistabili). Al giocatore viene imposta la classica tiritera che io sintetizzo sempre con la canzone di Sergio Endrigo: “Per fare un tavolo ci vuole il legno, per fare il legno ci vuole l’albero…“.

Un loop, appunto, troppo ripetitivo, che spesso e volentieri costringe a girare in lungo e in largo attraverso la Zona per reperire una singola risorsa rara (ad esempio il plasma, ottenibile solo in certi luoghi unici, usando esclusivamente il martello pneumatico). La soluzione a tutto ciò è semplice: il gioco dovrebbe richiedere meno materiali per il crafting oppure metterne a disposizione di più, specialmente nei checkpoint più remoti.

Per velocizzare l’esperienza complessiva, il mio consiglio è quello di farsi un bel giro nelle numerose opzioni di accessibilità: fortunatamente, abilitandone alcune – come quella che ripara automaticamente la macchina dopo ogni viaggio portato a termine – la progressione diventa sopportabile. Senza accorgimenti simili che snelliscono il gameplay loop molto grezzo, si ha la sensazione che Pacific Drive sia stato annacquato, quasi come se durasse 10 ore in più rispetto al necessario. Numeri alla mano, si parla di 25 ore circa per chiudere la campagna principale, più di 30 per il 100%.

pacific drive strada

Laddove la creazione di Iroonwood Studios scricchiola, la già citata art direction ci mette una toppa. Prendendo a piene mani dalla fantascienza a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, il titolo rende omaggio a film come Christine – La macchina infernale di Carpenter e le saghe di Ghostbusters e Ritorno al Futuro. L’atmosfera paranormale e orrorifica è indubbiamente l’aspetto più riuscito, complici le anomalie mostruose che incuriosiscono e spaventano.

Non mancano poi momenti di totale relax in cui far finta di essere Ryan Gosling in Drive e guidare sotto la pioggia battente con la radio accesa. In frangenti simili gli effetti visivi e sonori legati al meteo si dimostrano impeccabili, soprattutto durante la personalizzazione dell’auto in officina.

Da grande cultore di cartoni animati, inoltre, posso dire che l’estetica generale con qualche punta di kitsch mi ha riportato alla mente quel capolavoro che è In viaggio con Pippo e uno specifico episodio di Mr. Bean in cui compare una delle sue mirabolanti invenzioni: il Super Trolley (ovvero la forma che assume il nostro bolide verso la fine dell’avventura, un accrocco che funziona per intercessione divina).

pacific drive paranormale

Su PC il titolo sfrutta le DirectX 12 e il DLSS di NVIDIA, due pregi da evidenziare (nonostante manchi ancora il FidelityFX di AMD). La resa grafica molto buona viene minata però da un’ottimizzazione incerta, che dà luogo a uno stuttering fastidioso. Le ombre in particolare, benché ben sfruttate per dei contrasti piacevoli, pesano molto sulla GPU, causando una perdita complessiva di circa il 20% del frame rate. Fortuna che – in attesa di patch correttive – su internet si possono trovare delle brevi guide sulle impostazioni grafiche migliori per giocare in Full HD, 2K e 4K a 60 fps e oltre, senza problemi di lag (e di temperature specialmente, dato che il gioco mette il computer sotto sforzo più del dovuto).

In definitiva, Pacific Drive si dimostra un buon esordio per Ironwood Studios, pur con tutte le ingenuità e le storture di un’opera prima. Non era facile prendere la formula ormai stantia dei survival per rivoluzionarla e, sebbene il risultato finale si possa dire riuscito solo in parte, l’ambizione dello studio ha dato alla luce un videogioco che diverte e cattura grazie alla sua ispiratissima componente artistica da Route 66. Diciamoci la verità: unire sci-fi anni Ottanta e bolidi rombanti vuol dire vincere facile.

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Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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