A quattro mesi dall’uscita di Rebel Moon – Parte 1: Figlia del fuoco, è (finalmente?) approdata su Netflix la Parte 2, intitolata La Sfregiatrice, seconda pellicola del neonato franchise di Zack Snyder. Questo capitolo riprende esattamente dalla fine del precedente: Kora (Sofia Boutella) e i suoi magnifici sette tornano sul pianeta Veldt, tenuto sotto scacco del temibile Imperium e da un redivivo Atticus Noble (Ed Skrein), pronto a tutto pur di catturare la giovane e ricondurla al cospetto del patrigno e reggente Balisarius (Fra Fee).
Dato il successo (di visualizzazioni) sulla piattaforma streaming, Snyder e il suo sceneggiatore Kurt Johnstad hanno annunciato di avere in programma un seguito, con l’obiettivo finale di realizzare una trilogia. La struttura sarà sempre divisa in due pellicole differenti, per un totale quindi — con i due già usciti — di 6 film.
Rebel Moon – Parte 2: La Sfregiatrice prosegue il disastro del primo capitolo, con un’aggravante in più: non riesce a sfruttare le sue 2 ore abbondanti per fornire né uno sviluppo ai personaggi, né una conclusione degna e originale a una vicenda che, già dalla prima parte, risultava un pastiche malriuscito di suggestioni del passato. Se però la struttura da “road movie galattico” della Parte 1 riusciva un minimo a catturare l’attenzione dello spettatore, incuriosendolo con l’ambientazione e le trovate fantascientifiche, qui si perde qualsiasi tipo di interesse. Questa seconda parte infatti si svolge praticamente tutta sul pianeta Veldt ed è divisa in due segmenti precisi: la preparazione alla battaglia e la battaglia vera e propria con le forze dell’Imperium.
È incredibile come Snyder riesca a sfruttare così male tutto il tempo a sua disposizione, rendendo la preparazione non solo poco interessante (enfatizzando persino la raccolta del grano), ma soprattutto poco sensata. Il piano del generale Titus (Djimon Hounsou), che sembra aver preso il comando di tutto il villaggio senza alcun motivo, consiste nel produrre tutto il grano richiesto dall’Imperium in soli tre giorni (!) e sfruttarlo come fortificazione, così che il villaggio non possa essere distrutto dall’orbita; poi, nei restanti due giorni (!!), addestrare tutta la popolazione e costruire delle fortificazioni. Ricordiamo che Kora era partita alla ricerca di alleati proprio perché i tempi imposti dall’Imperium erano impossibili, invece ora sembra che tre giorni siano addirittura sufficienti. Snyder continua a deliziare la nostra logica anche mostrandoci come, nei restanti due giorni, il villaggio sia in grado di costruire bunker sotterranei con un intricato sistema di tunnel da fare invidia alle trincee della prima guerra mondiale.
Per non farsi mancare nulla, dopo la preparazione c’è una scena lunghissima in cui tutti i 7 combattenti, a turno, fanno trauma dumping raccontando cosa li spinge a combattere, in una sequela di flashback che non fanno altro che uccidere il ritmo. Ancora una volta sono evidenti i limiti della sceneggiatura e la difficoltà del cinema di Snyder nel gestire i rapporti umani (gestione persino peggiore delle scene d’azione). Tra tutti però, il flashback che merita una menzione d’onore è quello della protagonista, che mostra al pubblico per la prima volta il momento in cui è stata tradita dal suo patrigno Balisarius e costretta a uccidere la giovane principessa Issa. Una scena delirante, in cui un quartetto d’archi suona la colonna sonora in tempo reale mentre avviene il colpo di stato, con una motivazione del tradimento di Balisarius inesistente e una messa in scena surreale. Una bellissima miniatura di tutto ciò che non funziona in Rebel Moon Parte 2, al pari della scena d’azione del primo film, in cui Kora corre in soccorso della ragazza sul punto di essere stuprata dai soldati.
Dopo questo flashback, a poco più di metà pellicola, ammireremo fino alla fine una noiosissima battaglia quasi completamente al rallentatore, in cui anche la linea del fronte e degli schieramenti diverrà confusionaria. La regia onnisciente di Snyder vuole raccontare tutto quello che è presente sul set della battaglia, e continua a rimbalzare lo spettatore in ogni luogo per cercare di fornirgli più informazioni possibili, con l’unico risultato di disorientarlo e fargli perdere interesse. Il tutto viene condito da un finale sbrigativo, che deve obbligatoriamente lasciare le porte aperte per i già annunciati sequel e quindi rendere ancora più frustrante l’utilizzo di queste quasi 4 ore e mezza complessive per un’esperienza televisiva del genere.
La chiamo esperienza televisiva e non cinematografica perché il film è produttivamente concepito per Netflix. La profondità di campo di Snyder (che qui come per Army of the Dead è anche direttore della fotografia) è ridotta ai minimi termini per coprire eventuali magagne di VFX, che emergono lo stesso nel momento in cui in scena non ci sono nient’altro che oggetti digitali, qualitativamente al pari di un videogioco per PS3. Possiamo considerare la saga di Rebel Moon come una serie tv con puntate più lunghe dello standard Netflix, che comunque ci ha già abituato a puntate finali di due ore (vedi Stranger Things). Come sia stato possibile spendere un budget così elevato (83 milioni di dollari per parte, per un totale di 166 milioni) creando solo una sequela di eventi senza neppure più una parvenza di messa in scena, non è chiaro.
Quel che è certo, però, è che Rebel Moon potrebbe essere il futuro delle serie tv Netflix: qualcosa di produttivamente sempre più grande, sempre più imponente, ma al cui interno si trova ancora meno di quello che già non ci sia oggi nei prodotti del colosso dello streaming. Una parabola inevitabile, date anche le recenti dichiarazioni di non voler più puntare sull’autorialità, ma solo sul brand e sui prodotti. Considerando che Snyder è nato come pubblicitario, penso che abbiano puntato sul cavallo giusto.
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