Kinds of Kindness, la criptica antologia di Yorgos Lanthimos

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Voto:

Dopo il grande successo di Povere Creature era lecito aspettarsi una classica pausa di riflessione da parte del suo folle autore Yorgos Lanthimos, e invece no. Il regista greco, a neanche un anno dall’uscita della sua ultima creazione, si ripresenta al pubblico con Kinds of Kindness, un bizzarro film a episodi, presentato in occasione di Cannes 77 e in arrivo nelle sale italiane il 6 giugno.

I numerosi teaser traggono in inganno: ci si aspetta infatti un’opera assai più quadrata e minimale rispetto al precedente film, ma in realtà la nuova creatura di Lanthimos è ben lontana dall’essere un prodotto accessibile a tutti, benché – questo sì – più asciutto nella messa in scena. Il cineasta, insomma, torna alle sue origini offrendo un peculiare esercizio di stile, un gioco di scatole cinesi tutto da decifrare e che mette alla prova anche gli spettatori più avvezzi al suo cinema.

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Kinds of Kindness è a tutti gli effetti una nuova fiaba, questa volta ambientata nella contemporaneità. Ciò che la allontana dai lavori precedenti è il suo essere divisa in tre racconti che seguono situazioni diverse e apparentemente – sottolineo apparentemente slegate fra di loro. Non solo: tutti gli attori principali coinvolti – Emma Stone, Willem Dafoe, Jesse Plemons, Hong Chau, Mamoudou Athie e Margaret Qualley – interpretano di volta in volta personaggi differenti per ogni episodio. Per comprendere meglio questa struttura drammaturgica è utile riportare le sinossi dei vari segmenti:

  • Il primo, The Death of R.M.F., vede come protagonista un impiegato di nome Robert (Jesse Plemons) vivere alle dipendenze dell’imperscrutabile datore di lavoro Raymond (Willem Dafoe). Quest’ultimo gli dà strani ordini come ingrassare di giorno in giorno o portare a termine compiti pericolosi in cambio di una vita agiata insieme alla moglie Sarah (Hong Chau). Stanco delle angherie subite, Robert tenta di ribellarsi e di riprendere il controllo della sua esistenza.
  • In R.M.F. is Flying un poliziotto chiamato Daniel (Jesse Plemons) è depresso poiché la moglie Liz (Emma Stone) è scomparsa in mare a seguito di una spedizione di ricerca scientifica. L’agente passa qualche giorno in compagnia degli amici Neil (Mamoudou Athie) e Martha (Margaret Qualley) e, dopo un po’ di tempo, Liz ricompare misteriosamente. Il marito, però, non si fida: la donna sembra essere un’altra persona.
  • R.M.F. Eats a Sandwich “chiude il cerchio” con la storia di Emily (Emma Stone), una ragazza che, insieme al compagno Andrew (Jesse Plemons), tenta di scovare un individuo dotato di abilità psichiche. La sua ricerca si intreccia con la vita dell’ex fidanzato Joseph (Joe Alwyn) e l’operato di due santoni – Omi (Willem Dafoe) e Aka (Hong Chau) – che governano una strana setta.

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A saltare subito all’occhio sono i titoli dei rispettivi capitoli: la sigla R.M.F. – il cui significato è ignoto – altro non è che il nome di un personaggio ricorrente in ogni vicenda. Tale figura misteriosa è portata in scena da Yorgos Stefanakos, un vecchio amico dello stesso Lanthimos e di Efthymis Filippou, lo sceneggiatore con cui è stata scritta questa antologia, già autore di lungometraggi come DogtoothAlps The Lobster.

Le analogie tra le tre avventure non si fermano qui: sono soprattutto alcune tematiche a unire ciò che viene narrato; tematiche come la dipendenza affettiva, la manipolazione del prossimo, il servilismo e persino la cieca ossessione per certi culti o teorie del complotto. A ciò si uniscono i suddetti personaggi che si abbandonano spesso e volentieri agli istinti più bassi e triviali come il cibo e il mangiare o lo sfogarsi attraverso del sesso assai carnale. Non manca un inusuale filo rosso che lega il tutto, mescolando il tema della gravidanza con specifici feticismi e addirittura dei doppelgänger (posta così pare una follia, ed eccome se lo è).

Considerare dunque Kinds of Kindness come una buffa appendice in salsa contemporanea e paranormale di Povere Creature non è del tutto errato, vista la particolare attenzione rivolta alla dimensione grottesca dei corpi umani. Questa volta, inoltre, ci si focalizza ancora di più sui rapporti singolari che possono nascere tra le persone. Difatti, nella pellicola c’è spazio per certe forme di poliamore, per dirne una.

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Ad aggiungere carne al fuoco è poi la presenza, in ogni episodio, di simboli tangibili e metaforici che rimandano ad aspetti della vita: il corpo, la mondanità/il denaro, lo spirito (simboli presenti nella locandina ufficiale del film). Kinds of Kindness rimpiazza lo sfarzo barocco e giocoso di Poor Things con quel minimalismo quasi asettico e assai meno comico che è stato per tanti anni il marchio di fabbrica di Lanthimos; un autore che, tuttavia, ora non rinuncia a sprazzi di lussuria senza filtri.

Sfoderando un realismo magico figlio di uno strano mix tra il già citato Dogtooth e Il sacrificio del cervo sacro (con un pizzico di Leos Carax), la narrazione complessiva riesce a intrigare, rivelando però il suo punto debole allo stesso tempo, ovvero la poca intellegibilità. Le tre fiabe sono volutamente molto criptiche, ma a questo giro si ha l’impressione che la corda sia stata tirata un po’ troppo. Yorgos e colleghi hanno costruito un puzzle sensato o si sono persi nelle loro elucubrazioni? Non è chiaro.

A perdersi, nel bene e nel male, sono anche gli spettatori che, a caccia delle decine di significati da attribuire a ogni evento, rischiano di impantanarsi nell’overthinking (come sostiene anche il collega JeruS). Sia chiaro, è sempre bello assaporare opere come queste che riescono a tenere acceso il cervello del pubblico e a generare numerose discussioni e teorie sui loro contenuti, ciononostante il rischio di bruciarsi le meningi per qualcosa di fine a sé stesso è dietro l’angolo. Inutile dire che riguardare il film più volte è fortemente consigliato e necessario per venire a capo di tutto, dal momento che i dialoghi sono spesso gli unici appigli a disposizione per capire i collegamenti da fare mentalmente.

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Kinds of Kindness è pronto per essere etichettato come il classico lungometraggio da festival, ermetico quanto basta per millantare una presunta profondità di concetti e contenuti. Una formula perfetta per quei cinefili snob che potranno citarlo alle feste tra amici e dire “hai visto l’ultimo film di Lanthimos? Io non ci ho capito una mazza, ma sono figo lo stesso“. Per nostra fortuna la sostanza non manca, una volta lasciate perdere momentaneamente le speculazioni sul significato intrinseco del racconto o il modo in cui dovrebbe essere letto (se in modo cronologico o logico). Certo, la sceneggiatura è talmente astrusa che non ironicamente potrebbe portare a pensare “e se tutti i personaggi fossero dei cani sotto mentite spoglie?“, ma credo sia meglio concentrarsi su ciò che traspare di più dalla scrittura.

The Death of R.M.F. si apre con Sweet Dreams (Are Made of This) degli Eurythmics e proprio questa canzone è, secondo me, un indizio fondamentale per decifrare gran parte dello scheletro drammaturgico. “Everybody’s looking for something. Some of them want to use you. Some of them want to get used by you. Some of them want to abuse you. Some of them want to be abused” canta Annie Lennox. Le pedine dei tre racconti, in effetti, sono perennemente alla ricerca di qualcuno o qualcosa. Una ricerca portata avanti in nome dell’amore, un Amore con la “A” maiuscola, fattosi divinità madre e matrigna che governa i mortali e alla quale chiunque deve sottostare (quasi fosse la Provvidenza di manzoniana memoria). Il bisogno di essere amati – come forma di dolore tossico – spinge i personaggi ad agire in maniera consciamente masochista così da essere accettati dal prossimo. La stessa parabola si dipana in tre contesti e tre evoluzioni diverse.

Seguendo questa idea diviene chiaro anche il titolo del lungometraggio che rappresenta letteralmente i vari “tipi” di gentilezza e di affetto o affettività che gli alter ego degli attori veicolano (non sempre riuscendo a essere persone integre o gentili per davvero). Ecco una piccola chicca: alcuni poster promozionali di Kinds of Kindness ritraggono il cast con indosso maschere raffiguranti loro stessi; maschere che possono essere intese come socialiteatrali. Questa trovata metacinematografica gioca con della semplice etimologia: il termine “persona” proviene dal latino persōna (corpo/maschera dell’attore), e questo probabilmente dall’etrusco phersum (personaggio). Il concetto di persona è principalmente filosofico ed esprime la singolarità di ogni individuo, in contrapposizione al concetto “natura umana” che esprime ciò che essi hanno in comune.

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Da questi ragionamenti si sintetizzano alcuni quesiti fondamentali che il film lancia abbastanza limpidamente: come si fa a prendersi cura del prossimo? Abbiamo davvero bisogno di maschere pirandelliane per vivere in società? Come si affronta emotivamente una separazione? Domande affini, ancora una volta, a Poor Things e alla sua dimensione esistenzialista. Peccato, ripeto, per la troppa carne al fuoco che rende complesso decifrare tutto questo; un difetto che una pellicola analoga come Beau ha paura è riuscito a evitare con più eleganza.

Non bastano quindi i palesi richiami tra un episodio e l’altro per facilitare il lavoro di decifrazione; richiami che comprendono anche i ruoli rivestiti dagli attori. Willem Dafoe (The LighthouseNightmare Alley) ad esempio viene di volta in volta designato come una figura paterna dalle varie sfumature: il suo Raymond è un “padre” volubile per Jesse Plemons (Il potere del cane, Killers of the Flower Moon, Civil War) nei panni di Robert; un papà apprensivo per la Liz impersonata da Emma Stone (La La Land, Crudelia) e un santo misericordioso per Aka (interpretata da Hong Chau).

A livello recitativo – visto il cast d’eccezione – non c’è molto da dire: tutti brillano nelle rispettive performance, specialmente Plemons che si dimostra ancora una volta un gran mattatore, una star ormai lanciatissima nell’industria hollywoodiana. Ammirare le sue trasformazioni insieme a quelle dei colleghi è affascinante e divertente. Dispiace per lo screen time un po’ risicato del sopracitato Dafoe, un mostro di bravura che poteva essere sfruttato meglio.

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La giovane Hunter Schafer gode di un piccolo cameo.

Nemmeno l’impalcatura narrativa che sorregge la pellicola è esente da sbavature: il ritmo cala progressivamente dopo il primo capitolo, dimostrando come quest’ultimo sia il migliore in termini di coinvolgimento e contenuti; con i dovuti accorgimenti avrebbe potuto essere un ottimo lungometraggio a sé stante. Non è che gli altri “pezzi” siano noiosi, ma risultano leggermente annacquati qui e là, specialmente R.M.F. Eats a Sandwich (il meno interessante del gruppo per il sottoscritto). Tali eccessi si potevano evitare tagliando via 10 minuti circa da ogni storia. Trovo infatti che l’ipertrofia che va tanto di moda negli ultimi anni, sia nei blockbuster che nel cinema d’autore, abbia colpito anche Kinds of Kindness, la cui durata totale si attesta sulle 2 ore e 44 minuti (55 minuti circa a racconto, troppo per quello che viene effettivamente detto).

Registicamente parlando è tutto molto più a fuoco: i classici tratti stilistici di Lanthimos ci sono tutti, dalle lente zoomate alle rapide carrellate a seguire e a precedere, passando per gli immancabili primissimi piani. Sono felice di notare qualche esperimento estetico mutuato da David Lynch, come l’uso del bianco e nero per mettere in scena sogni e ricordi, quasi come se ci trovassimo al cospetto di una “versione greca” di Twin Peaks o Mulholland Drive.

Alle musiche torna il giovanissimo e bravissimo Jerskin Fendrix, che rielabora il lavoro fatto con Poor Things sfruttando nuovamente dei brani al pianoforte ricchi di dissonanze, miscelati con minacciosi cori gregoriani, quasi a voler colorare le vicende con una marcata sacralità.

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In conclusione, pare che dopo i trionfi alla Mostra del Cinema di Venezia e agli Oscar, il buon Yorgos Lanthimos abbia prevedibilmente conquistato il diritto di girare quello che gli pare e piace produttivamente parlando. Si potrebbe ipotizzare che con quest’ultima fatica abbia voluto dare in pasto al pubblico un prodotto che non desidera prendere d’assalto i botteghini come il predecessore, preferendo qualcosa di più respingente. D’altronde Kinds of Kindness non preme affatto sulla componente emotiva, poiché si presenta come un cervellotico cubo di Rubik che non tutti sono interessati a risolvere. Chi è appassionato di questo tipo di cinema, ci sguazzerà; chi non lo apprezza, potrebbe addirittura detestare un trio fiabesco del genere. Una caratteristica comune al mediocre Asteroid City. Mi auguro che non si tratti di un infausto segno premonitore per il futuro.

Che ne sarà della carriera del cineasta greco da ora in poi? La sua recente creazione potrebbe essere forse il preludio per un progetto ben più imponente e meglio strutturato? Così viene da pensare a giudicare dal fatto che il prossimo film che firmerà – noto come Bugoniaè già stato annunciato al pubblico di Cannes. La sceneggiatura, a cura di Will Tracy (The Menu), trarrà ispirazione da Save the Green Planet – commedia fantascientifica sudcoreana del 2003 – e vedrà di nuovo come protagonisti Emma Stone e Jesse Plemons, nei panni di “due tizi ossessionati dalle teorie del complotto che rapiscono il potente amministratore delegato di una grande azienda, convinti che sia un alieno intenzionato a distruggere il pianeta Terra”.

A ben vedere, abbiamo sotto gli occhi una corsa forsennata per cavalcare il recente successo. Speriamo dunque che le luci dei riflettori non siano troppo accecanti perché, a pensar male, Lanthimos potrebbe diventare un novello Wes Anderson: un rinomato artista ormai dedito solo alle sue velleità estetiche e che potrebbe aver dimenticato come scrivere storie accattivanti, in favore di capricci e sfizi strettamente formali.

Un ringraziamento speciale a Searchlight Pictures

Nefasto Articoli
Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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