Elden Ring: Shadow of the Erdtree – Miyazaki perde il pelo ma non il vizio (PC)

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Nell’era contemporanea del gaming, Hidetaka Miyazaki è considerato all’unanimità come una delle punte di diamante dell’industria. Padre di un intero sottogenere dell’action – il souls-like – nonché creatore di alcuni dei videogiochi più acclamati e redditizi di sempre – Dark Souls, Bloodborne, Sekiro e così via – il direttore e presidente di FromSoftware è per molti un game designer inattaccabile, per non dire un grande Maestro con la emme maiuscola. Per questa ragione Shadow of the Erdtree, espansione del celeberrimo e amatissimo Elden Ring, era attesa in maniera oltremodo spasmodica. La domanda che frullava in testa a pubblico e critica era una sola: può davvero un DLC alzare ancor di più l’asticella della qualità dopo che il gioco base ha, in parte, rivoluzionato il genere?

Con questo articolo desidero sia esaminare rigorosamente questo nuovo prodotto, sia raccontare in maniera discorsiva la mia esperienza nel dettaglio, cercando così di offrire una voce fuori dal coro che possa, a modo suo, distanziarsi dalle lodi eccessive o dalle stroncature radicali che dividono i giocatori in questi giorni e che continuano senza sosta ad allagare l’internet (alla faccia di chi dice ancora che i titoli targati FromSoftware sono opere di nicchia). Insomma, la mia vuole essere una recensione equilibrata e accompagnata, per l’occasione, da una personalissima filippica contro una “Miyazaki-mania” che ha ormai raggiunto livelli imbarazzanti.

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Shadow of the Erdtree va giocato una volta terminata l’avventura principale e i motivi sono due. Innanzitutto, la sua trama si lega a doppio filo con certi personaggi del gioco base come Mohg e, soprattutto, la figura di Marika, pedina fondamentale della storia, delineata accuratamente durante la traversata per la conquista dell’Anello ancestrale. In secondo luogo, la curva di difficoltà si dimostra ripidissima sin da subito; è quindi consigliabile affrontare il viaggio dal livello 150 in poi o giù di lì.

A proposito di trama, questo “nuovo paragrafo” di Elden Ring rompe la tradizione che ha visto la recente FromSoftware proporre DLC scadenti per i suoi giochi – il cui punto più basso è stato raggiunto con Dark Souls III: The Ringed City – e torna ai fasti di Bloodborne: The Old Hunters. Così come le vicende originali, scritte a quattro mani con George R. R. Martin, quelle ora proposte sono ben orchestrate e intriganti sin da subito.

Il setting è il Regno dell’Ombra, un luogo che l’Ordine Aureo ha separato dall’Interregno per celare oscuri segreti appartenenti a un’era passata. È qui che il nostro Senzaluce deve compiere un pellegrinaggio alla ricerca di Miquella, il fratello gemello di Malenia, nonché figlio semi-divino della già citata Regina Marika. Ad accompagnarlo una banda di fedeli che ricorda molto da vicino la Compagnia dell’Anello di Tolkien, nuovi NPC con cui svolgere delle quest per scoprire le macchinazioni del giovane Empireo, desideroso di dare vita a un mondo migliore e senza guerre, bloccando l’intervento di divinità esterne alla Volontà Superiore.

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Hornsent, uno dei nuovi comprimari con cui condividere il pellegrinaggio sulle tracce di Miquella.

Un racconto del genere affronta con finezza tematiche già note agli appassionati, ma con un respiro inedito, imbastendo un intreccio complesso di personalità e motivazioni per rispondere a due grandi quesiti: cosa comporta diventare un dio? E qual è il ruolo del libero arbitrio in un credo religioso? Non mancano poi sorprese ben piazzate e perfettamente in linea con la lore già nota.

Queste premesse infondono nell’avventura atmosfere ben più tenebrose e tristi di quelle a cui Elden Ring ci ha abituato due anni fa, avvicinandosi allo stile malinconico e crepuscolare di Bloodborne e mostrando tutto il marcio che l’Ordine Aureo ha spazzato sotto il tappeto. Uno stile che influenza, ovviamente, la mappa, ricca di enormi aree da esplorare in sella al fedelissimo Torrente.

Se è vero che il lavoro estetico svolto per modellare il Regno dell’Ombra è sopraffino come da tradizione, è da sottolineare anche che il game design su cui tutto di poggia è fortemente altalenante. Sono dell’idea che Miyazaki e colleghi, dopo anni di carriera, siano diventati molto abili a gettare fumo negli occhi dei fan, nascondendo tutte le storture delle ambientazioni dietro a un’art direction pregevolissima e alla colonna sonora imponente dei talentuosi Tsukasa Saitoh, Shoi Miyazawa, Soma Tanizaki, Yuka Kitamura Tai Tomisawa.

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La direzione artistica fa centro anche questa volta grazie a scorci che lasciano a bocca aperta.

Per cominciare, la gestione e la disposizione delle suddette aree risulta abbastanza schizofrenica: da un lato, il regno presenta dungeon articolati e complessi, nonché fondamentali per la progressione – come il castello di Messmer in cui ritornare ciclicamente – dall’altro praterie estese ma tristemente vuote, come se fossero delle “autostrade” tra una macro-zona e l’altra. Nonostante l’open world sia costellato da tanti elementi da scoprire esattamente come il gioco base – drop, luoghi nascosti, nemici, armi mai viste ed equipaggiamenti utilissimi per il personaggio – la sua estensione, stavolta decisamente più verticale, rende la navigazione confusionaria. È difficile capire come raggiungere certi punti di interesse poiché questi ultimi sono, spesso e volentieri, occultati dietro lunghi choke point, dungeon tediosi o percorsi controintuitivi che chiamare “giri di Peppe” è riduttivo.

In poche parole, il Regno dell’Ombra potrebbe essere descritto con una singola espressione, ovvero “Where’s Waldo?“, dal momento che la progressione è scandita dalla ricerca quasi incessante di anfratti poco visibili. Non ironicamente una mappa in 3D presa di peso da un DOOM: Eternal sarebbe stata molto d’aiuto. Nonostante ciò, è innegabile che giocare insieme a degli amici, condividendo progressi, scoperte e trucchi è sempre entusiasmante (per chi ne ha la possibilità). Nel mio caso, senza alcuni consigli non avrei mai notato una banalissima scala a pioli coperta da un muro, unico accesso a una delle porzioni di regno più importanti.

Per gli standard odierni, il mondo di Shadow of the Erdtree è relativamente ben curato, ma non certo il capolavoro da strapparsi i capelli che tutti dicono, dal momento che eredita i difetti di oltre un decennio fa, quegli erroracci comuni persino al primo Dark Souls e che “l’irreprensibile” Miyazaki non riesce a – o meglio non vuole – correggere. Come se temesse il cambiamento o non volesse proprio imboccare una strada diversa, così da accontentare i soliti quattro appassionati radicali e senza onestà intellettuale che vedono delle cifre stilistiche perfino nelle sbavature più grossolane.

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Mr. Miyazaki, dopo più di quindici anni di souls-like – volendo utilizzare una locuzione inglese – sembra essere diventato un one-trick pony, un autore che ricicla di continuo gli stessi tropi ormai noiosi o fastidiosi: cani mostruosi dal danno esagerato, paludi che avvelenano il personaggio con qualche status malevolo, boss dal moveset indiavolato, imboscate dietro ogni angolo… la filastrocca è quella. Il suo operato non è dissimile da quello di un Todd Howard (Skyrim, Starfield) che, geloso della sua preziosa e acclamatissima formula “inattaccabile”, rifiuta l’evoluzione in nome della solita e tradizionale minestra riscaldata.

Come biasimarli tuttavia? Che senso ha cambiare una ricetta problematica se è proprio quest’ultima a mandare in visibilio i fan senza cervello che non muovono mai una critica nemmeno sotto tortura? Da questo punto di vista, e volendo usare un’iperbole, Shadow of the Erdtree pare essere un esercizio di stile che insegna agli sviluppatori che non c’è nulla di male nel creare spazzatura, tanto il pubblico appassionato ingerirà qualsiasi cosa senza neanche tapparsi il naso.

Grazie per questo DLC. Non ci meritiamo un gioco così bello. Un’opera leader del settore in ogni aspetto, e una torcia brillante in un oscuro panorama fatto di pigre scelte di design e mancanza di profondità“. Questo che ho appena citato è un commento preso a caso sui social che restituisce perfettamente la mancanza totale di spirito critico di certi utenti. Specialmente se si considera che questo prodotto mette insieme, tra timide innovazioni e ottime idee, numerose trovate già criticate in Dark Souls II. Si sa, quest’ultimo è un capitolo che ogni fanboy di FromSoftware detesta, ma ora che molte delle sue componenti sono tornate prepotentemente nessuno vuole ammettere quanto siano deplorevoli.

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Quali sono dunque questi strafalcioni? Partiamo proprio dal riciclo dei mob che, furbamente, è stato fatto con i nemici più molesti e insopportabili di tutta la saga, ovvero quei mostri che infliggono status e debuff a ripetizione o, peggio, quelli che non sanno fare altro che afferrare il giocatore con prese che uccidono con un solo colpo. Inutile dire che questi balordi vengono nascosti quasi sempre dietro muri o in cima a posti che la telecamera impedisce di vedere così da beccarsi una bella sorpresa, come da tradizione.

A queste vecchie conoscenze si aggiungono creature inedite tra cui i tanto iconici quanto letali Golem della Fornace, colossi molto belli esteticamente ma assai deludenti pad alla mano, dal momento che esiste un unico modo per sconfiggerli – una classica gimmick – che richiede la ripetizione insistente di poche mosse (per poi ottenere delle ricompense che etichettare come inutili è un eufemismo).

In secondo luogo, una delle caratteristiche di questo DLC – per molti un pregio, per me un passo falso – è sicuramente il damage output esagerato che bisogna sopportare, scelta di design che comunica una cosa sola: questo è l’apice della difficoltà di tutti i souls, prendere o lasciare. Alla base di ciò c’è un sistema di progressione che ricorda quello visto in Sekiro, interessante sulla carta ma implementato nella maniera peggiore possibile. Oltre al level-up canonico, infatti, per rinforzare il proprio Senzaluce è possibile raccogliere e utilizzare ben cinquanta Frammenti di Albero Ombra, dei collezionabili che aumentano la capacità di infliggere e negare danni. Questi oggetti sono essenziali per procedere nell’avventura, peccato per la loro distribuzione a dir poco randomica che costringe a fare affidamento a guide per scovarli tutti. Non sorprende dunque che alcuni utenti abbiano già creato una mod per eliminare del tutto questa meccanica e che, a seguito di numerose proteste riguardanti la difficoltà, l’effetto dei Frammenti sia stato buffato con una patch ufficiale.

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Uno dei temibili Golem della Fornace.

I difetti storici della saga, com’è naturale che sia, affliggono anche il cuore dell’esperienza ludica, ovvero gli immancabili boss. La pessima telecamera che abbiamo imparato a sopportare, fa il suo nefasto ritorno e rende più ostici del normale alcuni combattimenti, dato che mirare correttamente verso il bersaglio può essere una sofferenza. A rappresentare pienamente questo orrore è proprio uno dei boss opzionali, Bayle il Terribile, il peggiore di tutto il DLC. Si tratta di un drago maestoso per la sua lore, ma dannatamente odioso meccanicamente parlando, dal momento che è quasi impossibile da colpire per colpa del lock-on che si posiziona esclusivamente sulla sua testa e della camera che tende a incastrarsi (“Drago Antico di Dark Souls II” vi ricorda qualcosa?). L’ennesima prova che Miyazaki dovrebbe smettere di creare mostri enormi che non fanno altro che mandare a quel paese la visuale; dovrebbe anzi prendere lezioni da Shadow of the Colossus.

La videocamera rema contro il giocatore soprattutto in quei frangenti in cui i boss sfoderano lunghe e pericolosissime combo o colpi esplosivi a lungo raggio, un tratto distintivo di questa espansione che gode nell’ammazzare con un paio di fendenti anche il combattente più esperto. Per onestà, c’è da dire che momenti qualitativamente ottimi e memorabili non mancano, lo scontro con Messmer l’Impalatore è uno di questi: un antagonista imparziale e contrastabile con il giusto impegno.

A ciò si aggiungono piccolissimi passi avanti sul fronte quality of life: la disposizione dei Siti di Grazia (i falò) è stata rivista e ora ci sono checkpoint davanti alla porta di ogni boss. Un miglioramento tanto desiderato, preso in prestito dal grandioso – e assai più rifinito – Lies of P che non costringe più l’utente a fare chilometri di camminata per arrivare in una zona dove, probabilmente, verrà ucciso e dove dovrà ritornare facendo avanti e indietro innumerevoli volte.

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Leone Danzante Belva Divina, il primo boss del DLC.

Abbiamo parlato di Marika, di Miquella e di Mohg, ma il personaggio che sta facendo ampiamente parlare di sé è il boss finale di Shadow of the Erdtree. Senza ombra di dubbio è il nemico più potente e ostico di tutta la carriera di FromSoftware e va affrontato con tantissima pazienza e criterio. Questa sua caratteristica potrebbe aprire un articolo a sé, ma cerco di condensare il mio pensiero: la sua difficoltà è pienamente giustificata, essendo l’ostacolo finale di un DLC opzionale, ma stavolta – a titolo strettamente personale – ritengo che la corda sia stata tirata più del dovuto (e lo dice uno che non ha avuto problemi a platinare Dark Souls III, Sekiro e lo stesso Elden Ring).

Volendo citare i pregi prima di tutto, fa piacere notare come il suo stile di combattimento sia davvero ben pensato e coreografato: non esistono build inutili o, viceversa, “rotte” contro di lui. Una decisione che vuole contrastare l’abuso incessante delle solite soluzioni meta – al limite del bug abusing – che appiattiscono il gioco (per intenderci, le build “brick on a stick” basate sugli spadoni e i martelli che scalano su Forza o le build Destrezza con le katana in dual wielding che causano sanguinamento).

Venendo ai suoi difetti, trovo che la sua seconda fase, a causa del cluster visivo causato da esplosioni ed effetti di luce eccessivi, sia davvero troppo da sopportare. “Non si capisce nulla” è il pensiero che meglio sintetizza la mia esperienza. Data la sua spiccata aggressività, non è un boss da imparare a memoria né da affrontare spammando rotolate o attacchi. Nonostante fossi ben conscio di ciò, io ad oggi non saprei dire come ho fatto a sconfiggerlo tanta era la concentrazione e la concitazione del momento. Certo, questo nemico è l’emblema della “vera anima” dei souls, un avversario onesto ma che ti fa sudare sette camicie, ma vi garantisco che impiegare due giorni interi per tentare di ucciderlo non è più divertente, è solo frustrante.

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Sfondato un muro del genere si è pronti ad affrontare qualsiasi cosa, persino l’infame Caelid, ed è questa l’immensa gratificazione alla base dei titoli di FromSoftware, nulla da dire su questo. È anche vero però che insistere così tanto sull’aumento della difficoltà non è una pratica che condivido appieno perché, superato un certo limite, non vivo più il gioco come stimolo, ma come stress (specialmente se poi, al termine dell’avventura, manca un finale a commemorare la mia impresa di ben 35 ore). Per questo non condanno a prescindere le opinioni e le recensioni negative di numerosi utenti sul web: a essere esagerate sono invece le lodi e le sviolinate a Hidetaka Miyazaki da parte dei puristi, feticisti delle esperienze punitive o dei perditempo che cantano in coro “git gud”, portando alta la bandiera dell’elitismo e del gatekeeping a tutti i costi.

La cieca adulazione risulta ancor più patetica nel momento cui ci si scontra con la pessima ottimizzazione di Elden Ring e della sua espansione su PC. Dati alla mano, è un software che gestisce le risorse di CPU e GPU in maniera totalmente arbitraria e che raggiunge i 60 fps stabili solo in zone chiuse. All’aperto il frame rate – ahimè cappato – si attesta sui 40 fps, altrimenti sui 30 scarsi durante le boss fight più concitate e piene di effetti particellari. Inaccettabili e approssimativi i filtri anti-aliasing proposti, così come la mancanza di opzioni grafiche che dovrebbero essere la norma nel 2024: DLSS, FSR e XeSS, nonché il supporto per i monitor UltraWide o a 120 Hz in primis.

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A fronte della grande mole di contenuto offerta, Shadow of the Erdtree vale i soldi che chiede e regala un’esperienza tutto sommato appagante. Ciò non elimina però i suoi difetti, più numerosi dell’opera di partenza, che lasciano l’amaro in bocca. In un’epoca dove la sponsorizzazione e il soldino facile attirano chiunque, è facile spargere 10/10 a destra e a manca per incensare un’espansione sì enorme, ma che esaspera una formula che non riesce più a nascondere i segni del tempo. Guarda caso, Elden Ring è riverito in tutto il mondo, la critica videoludica esala gli ultimi respiri e le “recensioni” sono diventate dei consigli per gli acquisti glorificati.

In conclusione io, da videogiocatore e appassionato, mi chiedo: a cosa serve lisciare il pelo al signor Miyazaki e a un nuovo titolo del suo studio con un bel perfect score (insensato) se a scrivere le stesse identiche cose sono altre centinaia di testate che vogliono solo guadagnarsi il favore della fanbase e il click sul sito? Il discorso potrebbe proseguire all’infinito. Lo status quo vede una FromSoftware ormai ascesa a divinità intoccabile come i personaggi delle sue storie e constatare l’effetto becero che tutto ciò ha su critica e pubblico è sinceramente sconfortante. Ricominciare a videogiocare con cognizione di causa, pensando con la propria testa, è chiedere troppo?

Nefasto Articoli
Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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