Il cervello umano è una macchina strepitosa. Ci permette di esperire la realtà anche nelle sue più sottili increspature soggettive, con la consapevolezza piena della nostra esistenza nel mondo e dell’interazione che abbiamo con gli altri e con noi stessi. È dinamico, adattivo, e rimodellandosi costantemente nel corso della vita garantisce al massimo delle sue possibilità la nostra sopravvivenza. Tuttavia, qualora il flusso comunicativo tra le nostre profondità si inceppasse, magari a fronte di un evento traumatico, è possibile venga a delinearsi una condizione dalle conseguenze distruttive, producendo fratture insanabili anche nell’animo più coriaceo se non trattata adeguatamente.
La storia di Reveil sembra immergersi nella struttura labirintica della mente umana, una mente intralciata dalla volontà di rimozione di un ricordo che sarebbe insopportabile, ma che viene urlato disperatamente dall’inconscio affinché fuoriesca. Una lotta invisibile, ma non per questo meno sanguinosa, che viene combattuta in un loop di ricordi dolorosi, una rievocazione ossessiva degli eventi della vita a caccia del buco nero, ritrovandosi poco dopo al punto di partenza con sempre meno forze per ricominciare daccapo. Fino all’inaspettato colpo di scena finale.
È impossibile svelare ulteriormente dell’intreccio narrativo di Reveil, dato che in questo tipo di produzioni ad assorbire in sé la maggior parte dell’esperienza è la trama. Questa si dipana all’interno della produzione con qualche errore di ritmo collocato nella fase centrale, per poi risalire vertiginosamente nelle battute finali, nei 5 epiloghi possibili a seconda delle scelte del giocatore. Fino a questo momento, le direzioni narrative messe in campo per confondere il giocatore sono troppo fragili perché non ne emerga prepotente solo una, che perdura durante quasi tutto l’arco del giocato.
Collocare l’ultimo lavoro di Pixelsplit nell’universo horror sarebbe non propriamente corretto, sebbene riesca ad esserlo di molte più opere che si prefiggono di spaventare a morte il giocatore. Siamo più dalle parti di un puro walking simulator, che fa della risoluzione degli enigmi e della narrativa ambientale la sua interazione, e delle ambientazioni la sua estetica videoludica.
Se la narrativa ambientale, approfondendo e instillando vari dubbi nella mente del giocatore, funge da supporto ad uno sviluppo della storia che procede per eventi scriptati, i puzzle rappresentano totalmente i tratti videoludici della produzione: ben congegnati, mai banali, ci si lascia sfidare piacevolmente da essi fino ai titoli di coda.
Il piacere qui non deriva dal superamento di una sfida ostica o impegnativa per le meningi, ma dall’intrecciarsi degli enigmi in maniera concreta ed efficace con l’ambientazione, per cui molto più che in altre produzioni ho avuto la sensazione di essere in una Escape Room virtuale. La meccanica principale risiede il più delle volte nella rotazione di un oggetto che teniamo in mano a caccia di elementi nascosti, un espediente che ormai è diventato un tratto distintivo di molte opere di questo tipo.
Parlando invece di ambientazioni, queste si presentano varie e costruite artisticamente in maniera efficace, per quanto personalmente quello del circo lo trovi un cliché fin troppo abusato nel genere. I picchi della costruzione scenografica anche qui vengono raggiunti dalla seconda parte dell’avventura in poi, con un uso sapiente dell’illuminazione e una regia (anche sonora) che riesce a tenere costante la tensione e l’inquietudine.
La durata dell’opera si attesta entro una forbice che va dalle 3 ore e mezza fino a quasi lo scoccare delle 5. La variabile è rappresentata dal fatto che ci si può dedicare alla raccolta dei pochi collezionabili presenti all’interno degli scenari. Dal punto di vista tecnico c’è un buon uso del motore grafico Unity, che combinato all’abilità artistica degli sviluppatori riesce nell’intento di calare nella spirale distruttiva del protagonista il giocatore, per quanto (credo per limiti di budget) non eccella mai.
Con Reveil, Pixelsplit confeziona un’esperienza solida, in cui il colpo di scena finale garantisce un’identità definita a una produzione che, altrimenti, avrebbe dovuto allargare fin troppo le braccia per ritagliarsi uno spazio nell’affollato panorama del genere, che ormai può contare diversi capolavori tra le sue fila. Pur non rappresentando particolari vette, l’opera riesce nell’intento che si era preposta: farci fare un viaggio tortuoso nella psiche di un individuo costretto a inseguire un passato oscuro, in un vortice di ricordi che non possono fare a meno di tormentarlo incessantemente.
Special thanks to Daedalic Entertainment
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