Nel panorama dei videogiochi indipendenti contemporanei, uno dei trend più apprezzati degli ultimi anni è sicuramente il revival dell’estetica PSX, che con i moderni strumenti è possibile ricreare molto facilmente anche da parte di studi piccolissimi o singoli sviluppatori, ottenendo risultati interessanti. Grazie poi a Resident Evil 7, ma soprattutto ai remake dei primi Resident Evil, è tornato in modo preponderante anche l’interesse per i survival horror vecchia scuola: ci sono stati studi AA che hanno virato la propria formula verso quel genere pur mantenendo un’impostazione personale, come Frictional con Amnesia: The Bunker, così come nuovi sviluppatori indipendenti che hanno creato avventure di questo tipo in pieno stile PSX, come Nightmare of Decay, Murder House o Signalis.
Quando il sovrannaturale non serve
Conscript, sviluppato da Catchweight Studio (che in realtà è formato solamente dal talentuoso Jordan Mochi, factotum dell’opera) e uscito il 23 luglio su tutte le piattaforme, si colloca esattamente su questa scia, essendo un survival horror alla Resident Evil realizzato in una pixel art simil-prima PlayStation. Come si può leggere sul sito dello “studio”, lo sviluppo di Conscript è iniziato nel 2017 ed è durato quindi circa 7 anni prima di essere ultimato, mentre il suo autore stava anche terminando la sua laurea in storia all’università di Melbourne. Quest’ultimo fattore ha giocato indubbiamente un ruolo importante nello sviluppo di Conscript, dato che a differenza dei vari esponenti del genere survival horror presenta un’ambientazione realistica e l’assenza di qualsiasi elemento sovrannaturale. Il gioco infatti è ambientato in una trincea della prima guerra mondiale, durante la battaglia di Verdun, e ha per protagonista André, un giovane soldato francese che vuole ritrovare suo fratello Pierre, rimasto disperso dopo l’assalto tedesco al Fort Souville.
Il gioco si struttura come un classico survival horror anni ’90, con una mappa gestita alla “metroidvania” e a stanze, un inventario limitato ma upgradabile, e una visuale top-down. Per avanzare nei 5 episodi in cui è divisa la storia, il giocatore dovrà trovare tramite esplorazione e backtracking oggetti e strumenti sempre diversi, con varie possibilità di combinazione tra di essi, così da superare tutti gli ostacoli. In un range che va dalle 10 alle 20 ore (in base al vostro livello di completismo), Conscript offre un’esperienza davvero vecchia scuola, dove qualsiasi tipo di “quality of life” nelle meccaniche viene eliminato per offrire un’esperienza il più simile a quella di una volta. Tuttavia se questo può essere un pregio per alcuni, specialmente i fan duri e puri del genere, ci sono alcune mancanze che purtroppo si fanno sentire più di altre, anche solo per un’esperienza più accessibile.
Old-school e frustrazione
La mancanza più grave in Conscript è un indicatore di completamento delle stanze sulla mappa, cosa che costringe i giocatori ad un backtracking infinito – molto più di quello presente in un normale gioco del genere – solamente per essersi perso un singolo oggetto chiave nascosto in un angolo scuro, non sapendo minimamente dove andare a cercarlo. Per questo motivo, una delle prime patch del gioco è consistita in un ribilanciamento del backtracking, riconosciuto anche dallo stesso autore come eccessivamente frustrante, in particolar modo nella penultima e ultima mappa.
Continuando sul viale delle critiche, che fortunatamente sono poche e comprese solamente nello spettro dell’appartenenza al genere di riferimento, l’elemento più frustrante e che uccide l’altresì perfetta immersività del titolo è l’ottenimento degli oggetti: molti di questi, come pale, filo spinato o qualsiasi altro strumento comune da trincea, si possono ottenere solamente da un drop specifico o da un prompt, nonostante a vista ce ne siano tantissimi non interagibili, inseriti solo per estetica. In questo senso il momento peggiore si ha all’interno del magazzino del filo spinato, dove moltissime casse ne strabordano, e avvicinandosi ad esse il personaggio constata che sia filo spinato inutilizzato, eppure rimane possibile raccoglierlo solo dall’unica cassa chiusa presente nella stanza.
Fa più paura ciò non si vede
Al netto di questi aspetti, l’opera di Jordan Mochi è comunque una delle iterazioni moderne più interessanti del genere, e riesce a costruire perfettamente un’atmosfera horror opprimente rappresentando nient’altro che la crudeltà e le sofferenze della vita in trincea durante la prima guerra mondiale, soprattutto grazie ad un sound design curatissimo e immersivo. Anche la scelta grafica, una pixel art molto sgranata in cui le ombre sembrano quasi delle macchie di rumore digitale (quelle che avvengono in un’immagine digitale troppo buia), contribuiscono a rendere ancora più perturbante l’avventura in cui il giocatore, proprio come nei primi Silent Hill (altra palese ispirazione per tutto questo filone di revival, Signalis su tutti), viene teso e spaventato più da cosa possa nascondersi in quella “grana digitale” che dagli effettivi elementi presenti sullo schermo.
La storia è molto semplice ed esaurisce la sua carica narrativa proprio nella premessa, ma solo perché la vera e propria trama è solo un pretesto per mostrare la vita in guerra in quel periodo storico: André e Pierre, che vengono approfonditi da alcune sequenze di flashback ad ogni cambio “capitolo”, altro non sono che degli archetipi di un tipo di umanità dell’epoca, e questo favorisce sia l’immedesimazione del giocatore che, cosa più importante, l’esposizione del messaggio antimilitarista.
Meccaniche ispirate alla realtà
Conscript è un’esperienza da provare per tutti gli amanti del genere, perché porta effettivamente verso nuovi lidi (soprattutto estetici/narrativi) un filone di giochi altrimenti sempre ancorati ad un’ambientazione sovrannaturale. Pur avendo alcune cose rifinibili a livello di gameplay – tra cui un’IA dei nemici particolarmente stupida e leggibile, che quindi li rende davvero pericolosi solo quando in grande numero – l’opera di Jordan Mochi è sfidante sia a livello ludico che intellettuale, e riesce nel suo compito in modo veramente originale e interessante.
Meccaniche come quelle di bruciare i corpi e chiudere i nidi dei topi per non farli arrivare a mangiare i cadaveri (e quindi portare malattie che possano debilitare il personaggio) sono molto ben integrate nel gioco, che almeno in questo aspetto inoltre riesce ad essere bilanciato, grazie ad un NPC nelle safe zone che permette sempre di acquistare alcuni consumabili essenziali (la valuta, storicamente accurata, sono le sigarette), e soprattutto la modifica e il miglioramento delle armi, quasi tutte sempre disponibili dall’inizio alla fine.
Il gioco comprende 8 finali (1A, 1B, 2A, 2B, 3A, 3B, 3B Alternate e 4) di cui l’ultimo considerabile come un finale segreto, raggiungibile solamente se nella propria run si sono trovati degli oggetti specifici, e che in quanto tale – come spesso accade in questi casi – si può ritenere il true ending: sicuramente spiazzante e dalle implicazioni storiche/psicologiche inaspettate. Altra aggiunta notevole è la possibilità di scegliere tra i salvataggi manuali nelle safe zone o i checkpoint automatici, quest’ultimi necessari per terminare il gioco con un grado S o superiore.
In definitiva, un’opera che farà la gola di chiunque sia in cerca di un’esperienza hardcore tanto dal punto di vista del gameplay quanto della narrativa, sapendo che gli orrori che si andranno ad affrontare sono davvero esistiti. Ogni pala data in faccia ai nemici sarà un colpo al cuore e al cervello, ogni proiettile sparato una decisione inevitabile e spesso sofferta, tutto per uscire da un inferno troppo reale per sparire davvero, non importa quanti anni o chilometri lontano.
Special thanks to Team17 and Honest
Commenta per primo
Questo sito è protetto da reCAPTCHA e si applicano le Norme sulla Privacy e i Termini di Servizio di Google.