Il cinema horror fa ancora moltissima presa sul pubblico contemporaneo, che si tratti di zoomer e “film bro” dal freschissimo profilo Letterboxd, o la vecchia guardia appassionata di Carpenter, Cronenberg, Tobe Hooper e tanti altri. A dimostrarlo è il buon successo di cui Longlegs si è potuto fregiare in patria; plauso che si è trasformato in spasmodica attesa qui in Italia, dove è stato presentato in anteprima alla 19ª edizione della Festa del Cinema di Roma. Il lungometraggio è l’ultima fatica del giovane e talentuoso Osgood “Oz” Perkins, già noto ai fan del genere per February – L’innocenza del male e Gretel e Hansel.
Il regista è uno dei tanti figli d’arte di Hollywood, cresciuto a pane e film dell’orrore: il padre, il celeberrimo e prolifico Anthony Perkins, è infatti conosciuto per aver interpretato Norman Bates in Psycho di Hitchcock e per aver diretto il sequel Psycho III del 1986; nella saga ha lavorato anche come attore in Psycho II e Psycho IV, prima di venir stroncato dall’AIDS nel 1992. La madre, invece, è la modella e attrice Berry Berenson, morta tristemente durante gli attentati dell’11 settembre 2001. Vista la drammatica scomparsa di entrambi i genitori, non sorprende che un uomo come Osgood si sia dedicato unicamente al cinema di genere più spaventoso e malato; passione che ha indubbiamente infuso nella sua nuova creazione, ricca di suggestioni provenienti da tutto l’universo del thriller.
L’inizio delle vicende mette subito in chiaro le atmosfere opprimenti che permeano la pellicola: in soli 6 minuti, con pochi elementi visivi essenziali, giochi di simmetria e un claustrofobico 4:3, viene costruita una sequenza piena di tensione che culmina con i titoli di testa. Un’inquietudine che aleggia per tutto il resto della narrazione, ambientata nell’Oregon degli anni Novanta e divisa in tre capitoli. La protagonista è l’agente speciale dell’FBI Lee Parker (una malinconica Maika Monroe), particolarmente perspicace e attenta nel suo lavoro. Infatti, poco dopo essere stata reclutata, con il suo atteggiamento calmo e distaccato mette in mostra un sesto senso innato, scovando con successo – senza prove o indagini – la dimora di un serial killer.
La sua squadra, capitanata dal supervisore Carter (un ottimo Blair Underwood), a seguito di alcuni test ipotizza che la donna possa avere doti da chiaroveggente o peculiari capacità parapsicologiche, ed è per questo che viene incaricata di risolvere un enigmatico caso che affligge la comunità da ben trent’anni. Si tratta di una serie di omicidi-suicidi in cui dieci famiglie sono state brutalmente sterminate. Ad accomunare le scene del crimine sono varie lettere in codice, firmate “Longlegs“. La grafia non appartiene a nessuna delle vittime, nonostante non ci siano prove forensi di alcuna intrusione domestica o di soggetti esterni presenti.
Il difficile compito di Parker è dunque quello di capire cosa collega tra loro tutte le morti efferate nonché apparentemente irrisolvibili, dato che il modus operandi – “l’algoritmo” – del presunto killer non è chiaro. In Oregon si aggira forse un nuovo Charles Manson che costringe poveri malcapitati a pratiche indicibili? Il criminale opera da solo o ha dei complici? C’è di mezzo una setta satanica o qualche sorta di fanatismo religioso che travia le persone? Tutte domande ricorrenti e ossessive che non fanno altro che infittire il mistero, tenendo lo spettatore incollato allo schermo.
Sono proprio le indagini – e dunque la prima parte del film – a costituire la componente più riuscita e stimolante dell’opera. Finalmente si assiste a una storia in cui le forze di polizia non sono completamente idiote: il duo Parker-Carter ha una chimica che funziona molto bene, complici l’astuzia della donna e la prova attoriale convincente di un Underwood (Gattaca – La porta dell’universo) che sa vestire i panni dell’investigatore scrupoloso. Gli eventi cavalcano – volutamente o meno – la popolarità del true crime e di prodotti simili come Zodiac e Mindhunter del buon David Fincher. Non a caso Oz Perkins ha dichiarato di essersi ispirato al macabro omicidio irrisolto della piccola JonBenét Ramsey per scrivere gran parte della sceneggiatura.
Al sapiente uso del simbolismo e ai topos ricorrenti dei thriller investigativi si aggiungono richiami più o meno palesi ai videogiochi di Remedy Entertainment – nello specifico Control e la saga di Alan Wake – che arricchiscono il racconto con derive occulte e soprannaturali (la casa di Lee Parker assomiglia all’Oceanview Motel, nessuno me lo toglierà dalla testa). Chiudono il cerchio furbe strizzate d’occhio agli horror giapponesi di fine anni Novanta – Cure di Kiyoshi Kurosawa per citarne uno – una bellissima citazione visiva al sedicesimo episodio della terza stagione di Twin Peaks e un certo fattore drammaturgico ereditato da La bambola di carne di Ernst Lubitsch, che funge da filo rosso per il mistero e da tributo cinematografico al popolare concetto socio-filosofico del doppelgänger.
Insomma, la penna di Perkins compone lentamente un puzzle nelle teste del pubblico, partendo da fondamenti di psicologia, uno su tutti il perturbante di Freud. In tutto ciò, nonostante i numerosi silenzi, il minimalismo di certe scenografie e un ritmo che fa dello slow burn il suo mantra, riesce a friggere a dovere i nervi. A tenere sulle spine è, ovviamente, l’uomo nero in persona, portato in scena da un Nicolas Cage (Renfield, Dream Scenario) in formissima.
Il grande Nic non è nuovo a ruoli di spicco quando si parla di horror: già nel buon Mandy del greco Panos Cosmatos aveva dimostrato il suo talento indiscusso. Qui tira fuori del sano istrionismo e si trasforma in un’algida maschera grottesca e mefistofelica che cattura l’attenzione di chiunque malgrado il suo screen time volutamente ridotto. Il suo personaggio isterico e feroce, che con Art il Clown di Terrifier condivide un pizzico di follia, compare solo in determinati momenti, aumentando la sensazione di pericolo invisibile ma incombente. I suoi occasionali sussurri generano forte ansia insieme alla paura che possa celarsi nell’ombra, quasi fosse onnipresente. È indubbio che l’eccellente Babadook – dal quale Longlegs eredita la dimensione favolistica – e It Follows abbiano fatto scuola per quanto concerne la costruzione dell’angoscia.
Facendo un po’ il verso all’immortale Anthony Hopkins nei panni di Hannibal Lecter ne Il silenzio degli innocenti, Cage dedica la sua performance alla madre – che per tutta la vita ha convissuto con schizofrenia e depressione – e insieme alla sceneggiatura esplora il ruolo della figura materna e di alcune ossessioni familiari. Ha sviluppato il suo alter ego usando proprio un vivido ricordo d’infanzia che ha così descritto: “mia mamma era solita mettersi una maschera bianca per il viso. Un giorno ho aperto la porta del bagno per vedere cosa stesse facendo. In quel momento, senza motivo, ha girato velocemente la testa e mi ha fissato con la crema in faccia. Mi ha davvero spaventato. Recitando ho anche provato a imitare il suo strano modo di parlare. Quando si vive in preda alla depressione, si è alla mercé di tante voci che ti convincono a fare le cose più strane“.
A favorire l’ottimo lavoro attoriale è certamente la regia di Oz Perkins che, al netto di qualche jumpscare non richiesto, oscilla tra trovate classiche e moderne. Le prime, riprese da Halloween di Carpenter, prevedono per esempio l’utilizzo di suoni fuori campo ed elementi fuori fuoco o alle spalle dei personaggi per aumentare la sensazione di minaccia in arrivo (effettiva o meno che sia). La messa in scena quadrata e funzionale si fregia poi di lente carrellate a precedere e di alcune panoramiche altrettanto lunghe che innervosiscono lo spettatore: di tanto in tanto sembra proprio che la macchina da presa abbia intenzione di mostrare, da un momento all’altro, qualcuno o qualcosa in agguato.
Danny Vermette fa ampio uso di ambienti vuoti come lunghi corridoi o stanze più o meno larghe per costruire le scenografie come se fossero spazi liminali. Una scelta che disorienta appositamente il pubblico, poiché quest’ultimo è naturalmente portato a riempire i suddetti spazi vuoti con la propria immaginazione. Così facendo, in piena suggestione, ci si convince dell’esistenza di presenze ostili persino nel luogo più innocuo.
L’insieme è coronato dalla direzione della fotografia di Andres Arochi che alterna intelligentemente sequenze luminose e scene più buie, quasi a voler suggerire che il temibile Longlegs potrebbe nascondersi in ogni angolo. Il comparto visivo è infine sostenuto dalle musiche di Zilgi, pseudonimo di Elvis Brooke Perkins, fratello del regista: i brani rispettano i canoni delle colonne sonore horror contemporanee a cui siamo abituati, ma aggiungono qua e là canti gregoriani e dei passaggi derivati dalla dark ambient, dalla noise music e dal drone doom metal. Il risultato sono delle cattedrali sonore tanto imponenti quanto inquietanti, paragonabili alle composizioni di artisti come i Batushka, i Sunn O))) e Aarsland.
Grazie alla sceneggiatura che critica aspramente il bigottismo religioso e il puritanesimo made in USA, e alle sue finezze per quanto concerne l’impianto drammaturgico, Longlegs è certamente un ottimo prodotto. Ciò non significa però che si tratti di qualcosa di mai visto, rivoluzionario o del “miglior horror dell’anno” come molti dicono. Come spesso accade con giornalismo di settore e pubblico, anche quest’ultimo lungometraggio è stato dipinto come terribilmente spaventoso, quando è semplicemente molto ansiogeno.
Il suo autore procede con una linearità efficace, senza mai strafare o uscire dal seminato. Peccato per la seconda parte della storia più sottotono e dozzinale rispetto alla prima metà che, di contro, riesce a tenere chiunque con il fiato sospeso grazie ai mille punti interrogativi. Purtroppo lo scorrere degli eventi non riesce a gestire fino in fondo l’antagonista che ha costruito con tanta perizia e il coinvolgimento si spegne sul più bello per colpa di trovate narrative già viste. Invece di esplodere in un terzo atto sempre più conturbante e malato, la storia prende pieghe tristemente banali.
Inciampi a parte, il film ha senza dubbio stile da vendere e benché non sia un Midsommar o un The Lighthouse, si ritaglierà – come in parte ha già fatto – un posto d’onore tra gli appassionati del genere, complici le sue velleità da prodotto arthouse molto vicino allo stile della A24. L’indipendente Osgood Perkins può cantare vittoria e noi potremmo – cautamente – cominciare ad annoverarlo tra gli interpreti più raffinati del nuovo cinema dell’orrore, una corrente artistica che promette di essere intensa, coinvolgente e visivamente disturbante.
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