Quest’anno tra le sorprese più interessanti proposte da Alice nella Città – sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma – c’è stato un piccolo, grande film d’animazione: Flow. Il suo autore è un giovane regista lettone di appena trent’anni, Gints Zilbalodis, giunto all’attenzione di pubblico e critica nel 2019. Il cineasta, infatti, stupì la giuria del Festival di Annecy con la sua opera prima, Away, un lungometraggio completamente muto realizzato con Autodesk Maya. Per questo debutto, scritto da lui stesso, compose anche le musiche che gli valsero una candidatura agli importantissimi Annie Awards; premi che nel 2019 videro la partecipazione di giganti del settore come Frozen 2 e Toy Story 4, in quanto una delle cerimonie più importanti al mondo nel campo dell’animazione.
Flow non si discosta molto dal suo predecessore, essendo una storia corale portata in scena da dolcissimi animali. A differenza però di quanto accade nei prodotti mainstream targati Disney o DreamWorks, i protagonisti senza nome dell’opera di Zilbalodis – capitanati da un irresistibile gattino nero – non parlano né ragionano come esseri umani: sono pure e semplici bestioline chiamate a sopravvivere nel corso di un’avventura più grande di loro. Grazie all’incredibile comparto visivo che sorregge la messa in scena, questa piccola e rara gemma ha stregato persino il grande Guillermo del Toro, da sempre particolarmente affezionato ai prodotti animati, che l’ha definita “il futuro dell’animazione“. Dopo aver incantato Cannes ed essere entrato a gamba, o meglio, zampa tesa tra i favoriti per la corsa agli Oscar, Flow arriverà nelle sale italiane il 7 novembre, grazie alla distribuzione di Teodora Film. In questa recensione piena di entusiasmo mi schiero anche io con il buon del Toro e tento di tradurre in testo scritto un’esperienza visiva ed emotiva che mi ha stretto il cuore.
Il racconto non fornisce né coordinate spaziali né temporali, la premessa è solo una: gli esseri umani sembrano ormai scomparsi da tempo e la natura si è ripresa i suoi spazi, ricoprendo il mondo di rigogliosa vegetazione. Gli unici abitanti rimasti sono gli animali che vagano in cerca di cibo e di posti da sfruttare come tane. Tra questi c’è un gatto nero molto fifone che vive in una piccola casa abbandonata e passa le giornate catturando pesci e sonnecchiando su un letto che ha reclamato. L’idillio viene improvvisamente spezzato da una gigantesca inondazione che ricorda l’Antico Testamento biblico e il nostro protagonista è dunque costretto a lasciarsi alle spalle la dimora per mettersi in salvo.
Durante l’emozionante fuga rocambolesca, incrocia il cammino con altri simili che tentano di scampare alla catastrofe allo stesso modo: un pigro capibara, un lemure che ama collezionare gli oggetti più bizzarri lasciati dagli umani, un Labrador Retriever giocherellone e affettuoso e un maestoso Sagittarius serpentarius (comunemente noto come uccello segretario o serpentario). Nonostante le grosse differenze, il quintetto così composto si ritrova a condividere una barca a vela, unico mezzo a disposizione per muoversi su un pianeta ormai sommerso dall’acqua. La destinazione è ignota.
Ciò che indubbiamente colpisce subito di Flow, sin dalla prima inquadratura, è la messa in scena che riesce a essere sontuosa in certi scorci e teneramente intima in altri. Le ambientazioni che attraversa la bizzarra Arca di Noè sono un mix splendidamente riuscito tra paesaggi realmente esistenti e suggestioni da celebri videogiochi. Nel primo caso, ho ripensato ai luoghi del Nepal, delle Americhe precolombiane e persino ai monumenti di Khajuraho in India. Invece, se parliamo di gaming, è impossibile non citare la triade firmata da Fumito Ueda: ICO, Shadow of the Colossus e The Last Guardian.
Il debito che la resa estetica ha nei confronti delle opere videoludiche passate e contemporanee viene palesato proprio da uno stile grafico unico, vicinissimo alle cutscene dell’epoca a cavallo tra PlayStation 1 e 2. Al contrario, la camera che segue i personaggi imita quanto fatto con Death Stranding: la simulazione del movimento è eccellente, sembra che a inquadrare i nostri avventurieri sia una vera macchina da presa che ondeggia e “respira” insieme a loro.
Anche le animazioni sono di ottima fattura: la vegetazione e l’acqua – grandi protagoniste dei panorami avvolti da piante e frequenti onde anomale – sono una meraviglia per gli occhi, le movenze degli animali vantano una cura e un realismo estremi. Non si soffre la mancanza totale di dialoghi poiché l’adorabile gattino e i suoi colleghi traducono la loro istintività grazie a versi e decine di espressioni diverse che fanno sorridere per la loro dolcezza e che li rendono più umani degli umani stessi. Il micio – per esempio – abbassa le orecchie quando ha paura e i suoi occhi reagiscono a ciò che ha intorno, il cane fa le feste quando è felice, il lemure arriccia la coda quando è infastidito e così via. Come Pablo Berger per il suo Il mio amico Robot, Zilbalodis adotta un linguaggio universale, cosciente che un gesto vale più di mille parole.
Un altro punto di forza del lungometraggio, oltre alle atmosfere sognanti, è la sua capacità di attivare il cervello degli spettatori, bombardandolo di quesiti che ronzano nel cervello anche a visione terminata. Gli scenari incantano per la loro bellezza, ma richiedono anche di essere decodificati: vi sono qui e là sprazzi e tracce di una o più antiche civiltà che hanno abitato la Terra – statue, colonnati, idoli di pietra dalle fattezze umane e animali, oggetti, case e costruzioni in rovina – però nulla fa comprendere appieno di chi si tratti. Quando e dove sono ambientate le vicende? Come sottolineato in apertura, non ci è dato saperlo e non si tratta nemmeno di informazioni fondamentali. Data la spiccata spiritualità orientale e non che caratterizza e avvolge la narrazione, è lecito pensare che gli umani ormai estinti avessero dato vita a vari culti di stampo animista o magico.
L’ipotesi è supportata dall’unica zona geografica identificabile che il gatto e i suoi amici usano per orientarsi, ovvero delle alte formazioni rocciose simili ai Pilastri della Creazione e visibili in lontananza (“ai confini del mare” o “oltre i confini del mondo” per citare Pirati dei Caraibi). Questo luogo apparentemente irraggiungibile ed etereo costituisce la meta di un pellegrinaggio metaforico ed è legato concettualmente all’unica sequenza criptica del film che, guarda caso, si avvicina di più al genere fantasy (al contrario del resto degli eventi che si mantiene su una dimensione terrena e realistica).
L’insieme di scene inizia dopo un tremendo temporale, momento in cui appare un’insolita aurora boreale in prossimità di quello che sembra un luogo di preghiera: qui il gatto e l’uccello segretario vengono coinvolti in uno strano evento dalle tante interpretazioni possibili. A questo proposito, se il saggio Sagittarius serpentarius può essere considerato il mentore del gruppo, allora l’acqua – similmente a quanto accade in numerose sceneggiature affini – ricopre a sua volta il ruolo di elemento trasformativo, portatore di cambiamenti positivi e negativi. Nella sequenza che è stata descritta abbiamo la pioggia, mentre nel resto della pellicola vediamo più volte il micetto specchiarsi in pozzanghere; un dettaglio che potrebbe apparire ininfluente, ma che cela un messaggio fondamentale: imparare a riconoscere i propri limiti per superarli.
Non è un caso che il protagonista della storia sia un felino naturalmente terrorizzato proprio dall’acqua; in fin dei conti qual è l’animale più svantaggiato quando si tratta di sopravvivere in un mondo completamente sommerso? È qui che la metafora dell’immagine riflessa acquista significato: osservando sé stesso, il nostro eroe guarda in faccia la sua paura più grande e impara piano piano ad abbracciarla per poi superarla. In questo il racconto condivide alcune tematiche esistenzialiste con il celebre manga Vinland Saga, il cui punto più alto è la frase “Non ho nemici“, una potentissima presa di coscienza.
Con un mondo ormai distrutto alle spalle, a cosa serve avere e farsi dei nemici? A nulla. E questo gli animali lo capiscono bene, meglio degli esseri umani. Passando dalla solitudine al gioco di squadra, i personaggi affrontano ogni ostacolo o scoperta insieme, accettando le loro differenze radicali e rinunciando all’egoismo che, con molta probabilità, ha portato alla devastazione del loro pianeta. Ecco perché – nei suoi ritmatissimi 85 minuti – Flow è anche un saggio sull’evoluzione della specie; un cambiamento che germoglia grazie alla cooperazione tra simili e che porta inevitabilmente a chiedersi: se davvero dovessimo estinguerci, cosa accadrebbe alla natura senza di noi?
Le domande che sorgono durante la visione pesano come macigni e possono anche essere taglienti. Io, per esempio, sono arrivato a chiedermi: per sopravvivere abbiamo per forza bisogno di sacrificare sempre qualcuno o qualcosa? In fin dei conti è quello che stiamo facendo da decenni, bruciando in tempi record tutte le risorse che la povera Terra ci offre di anno in anno. La sceneggiatura di Matiss Kaza e Gints Zilbalodis stesso non offre risposte precise, bensì una chiave di lettura, buddista oserei dire.
La convivenza sulla barca a vela non è facile: il Labrador vorrebbe giocare continuamente con qualcuno, il gatto fa di tutto per non bagnarsi, al lemure interessa solo collezionare tutti i ninnoli che trova e il capibara desidera il silenzio assoluto per dormire in santa pace. Tutti capricci mondani che, in un modo o nell’altro, vengono accantonati per aiutarsi a vicenda (cosa che l’uomo individualista della nostra contemporaneità neoliberista non sa fare nemmeno sotto tortura). L’interpretazione buddista si sostanzia pertanto nell’abbandono della suddetta mondanità in favore di valori più alti come l’altruismo, per vivere in armonia e distaccarsi da tutto ciò che è dolore.
Più precisamene, sempre a proposito di religioni asiatiche, la rappresentazione iconografica della Ruota dell’esistenza spiega ancora meglio questo particolare punto di vista attraverso i simboli dei “tre veleni”: la cupidigia, l’odio e l’ignoranza (rese iconograficamente come, rispettivamente, un gallo, un serpente e un cinghiale). Di solito ciascuno morde la coda dell’altro, a significare che ciascuna passione velenosa produce le altre in una spirale in cui alimentare una di queste non permette di liberarsi delle altre. Curiosamente, infine, nel mondo animale descritto dai princìpi orientali si è condannati a essere soggetti alla legge del più forte, alle intemperie, alla fame e alla sete. Un parallelismo calzante, no?
Come da titolo, in Flow tutto scorre ciclicamente – panta rei direbbero i filosofi eraclitei tentando di spiegare il concetto del divenire – ed è proprio questa ciclicità il filo rosso di ogni avvenimento, finale incluso. “Gioisci finché ti è permesso, altrimenti preparati a salvare il salvabile” pare dirci il regista, senza però imbastire discorsi fatalisti o eccessivamente paternalistici. In un’ottica ecologista, la più gettonata e semplice per decifrare il lungometraggio, si può affermare che ciò che è favorevole per il singolo non è detto che rappresenti un vantaggio per una comunità intera e viceversa.
Le riflessioni possibili sono parecchie, di conseguenza è utile lasciarle decantare come un buon vino. Dopotutto il grande cinema, quello stratificato e denso, non deve dare delle risposte chiare e definite; può piuttosto fornire chiavi di lettura della realtà o porre le domande adeguate per scatenare la scintilla del cambiamento (Megalopolis docet). Chissà se la rivoluzione giungerà dalle menti umane o animali, il tempo per rimuginare è quasi esaurito. Sarebbe ora di guardarsi allo specchio e di rendersi conto che in questo mondo meraviglioso in cui viviamo gli egoisti non si salveranno.
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