“Al mio segnale, scatenate il sequel” avrà affermato a gran voce Ridley Scott nel 2023, dopo aver terminato le riprese di Napoleon per iniziare quelle de Il Gladiatore II, a più di vent’anni distanza dal primo, amatissimo film con Russell Crowe (Thor: Love & Thunder, Poker Face). I dubbi al momento del suo annuncio sono stati moltissimi e provenienti soprattutto da quei fan affezionati alle gesta di Massimo Decimo Meridio, ormai figura cardine della storia del cinema per gli appassionati del filone dei peplum. “C’è davvero bisogno di un sequel?”, “Cosa avrà da raccontare di nuovo?”, “Il vero gladiatore è Massimo, senza di lui niente seguito!” questi e tanti altri i commenti emersi ovunque in rete che, finalmente, hanno ricevuto le risposte adeguate.
A raccogliere l’eredità di Crowe è un giovane Paul Mescal, salito alla ribalta negli ultimi anni grazie ai suoi ruoli in prodotti di successo come Aftersun, Estranei e la miniserie TV Normal People, lontanissimi dal cinema d’azione. Non sono dunque mancate critiche anche per lui, attore affiancato da un altrettanto celebre – e altrettanto contestato – Pedro Pascal, chiacchieratissimo dopo i successi in campo televisivo con The Mandalorian e The Last of Us.
Ha sorpreso e intrigato anche la presenza di Denzel Washington (Inside Man, The Equalizer) come co-protagonista: “un afroamericano nei panni dell’Imperatore di Roma? Vergogna!” questo il (basso) livello delle proteste di coloro che non conoscono né la trama ideata dal regista né la storia romana vera e propria. Volendo essere precisi, infatti, il personaggio di Washington – perfettamente in accordo con l’universo narrativo e le sue fonti – è ben più di un regnante qualsiasi. Capricci dei fanatici a parte – che ultimamente non mancano mai quando c’è di mezzo il povero Scott – un film del genere nelle sale non dovrebbe mai essere un dispiacere e in questo specifico caso, che ci crediate o meno, le questioni di peso di cui discutere sono numerose.
È il 200 d.C., sono passati circa vent’anni dalla morte di Massimo Decimo Meridio e dal regno del saggio Marco Aurelio. A governare Roma sono gli imperatori gemelli Geta (Joseph Quinn) e Caracalla (Fred Hechinger), due tiranni che mirano soltanto a espandere i confini dell’Impero anziché preoccuparsi di sfamare il popolo ridotto in povertà, proprio a causa delle continue guerre. Prima di addentrarsi nella Capitale, la macchina da presa ci trasporta nella regione della Numidia (oggi corrispondente grosso modo alla parte nord-orientale dell’odierna Algeria). Qui facciamo la conoscenza di Annone (Paul Mescal) – prode soldato a servizio del sovrano Giugurta (Peter Mensah) – e della guerriera Arishat (Yuval Gonen), moglie del protagonista.
Il trio è chiamato a difendere la sua terra – l’ultima città libera dell’Africa Nova – dalla colonizzazione romana guidata dal valoroso Generale Acacio (Pedro Pascal). Purtroppo la sanguinosa battaglia tra mare e terra volge in favore dell’inarrestabile potenza di Roma e delle sue centurie: una freccia di Acacio uccide Arishat e Annone viene reso schiavo e caricato su una nave diretta ad Anzio. Rimessosi in forze e desideroso di vendetta, il giovane fa la conoscenza di Macrino di Tisdro (Denzel Washington). Quest’ultimo è un lanista al soldo di Geta e Caracalla che, intuendo il grande potenziale del prigioniero, decide di insegnargli l’arte gladiatoria. Annone accetta, a patto di poter ottenere la testa di Acacio.
Ventiquattro anni sono tanti e ne è passata di acqua sotto ai ponti, specialmente se parliamo della cinematografia di Ridley Scott da Prometheus in avanti. Ne consegue un lungometraggio pienamente figlio della sua epoca, molto più politicizzato e che non può né vuole fare il verso allo stile drammaturgico ed estetico del Duemila. La maturità a livello tecnico è immediatamente chiara se si osserva la sequenza di apertura ambientata in Africa: il combattimento tra Numidi e Romani è titanico, carico di azione e perfettamente leggibile nella messa in scena. Lo scontro – complici le navi, le testuggini, le catapulte e tutto l’armamentario dispiegato – ricorda per proporzioni le spettacolari battaglie campali di Napoleon.
Gli effetti visivi – curati dalla Industrial Light & Magic e una manciata di altri studi – sono poi ben integrati e non sporcano delle scene da brivido. Basti pensare al fatto che, per sottolineare la crudezza di certi momenti, il rallentatore non viene più ricreato aprendo eccessivamente il diaframma degli obiettivi e riempiendo la visuale di motion blur come accadeva nel primo film. Ora il direttore della fotografia John Mathieson – che ritorna ad affiancare Scott – opta per un semplice cambio di frame rate che è sufficiente per concentrare l’attenzione sui frangenti più intensi.
Altre differenze con la pellicola precedente si devono soprattutto alla sceneggiatura ben più stratificata, scritta da David Scarpa (The Man in the High Castle, Napoleon). La narrazione affronta svariate tematiche e insiste, come già detto, su una dimensione socio-politica senza dimenticare alcune palesi citazioni alle gesta di Russell Crowe. Le stilettate della penna di Scarpa si concentrano contro quello che potremmo definire il “Roman Dream“, fallimentare tanto quanto la controparte americana. L’imperialismo romano è dipinto negativamente e la Caput Mundi non è più quella metropoli splendente tanto esaltata ne Il Gladiatore o in pellicole affini: in un periodo storico dove la violenza è il linguaggio universale prediletto per tessere legami tra civiltà, essere un gladiatore vuol dire diventare carne da macello in nome della vanagloria e nient’altro. L’indipendenza non si compra con la lotta né si ottiene scalando i ranghi dell’arena, il Colosseo porta con sé solo la morte.
Questo il popolo lo sa bene e infatti non sostiene il governo dei gemelli. Una Roma che sia la casa di tutti, ecco il sogno di Marco Aurelio che, tuttavia, come può realizzarsi se i cittadini stessi non sono liberi in primis? Ognuno è schiavo della lussuria, della mondanità e dei divertimenti; panem et circenses scriveva il poeta Giovenale. Un aspetto evidenziato dalla cura riservata a costumi e scenografie che, per la prima volta, dipingono l’altra faccia della Capitale: quella sporca, disastrata e abbandonata a sé stessa mentre “annega nel suo stesso sangue“; in netto contrasto con l’opulenza dei bordelli e delle dimore dei regnanti. Annone stesso guarda con disprezzo i suoi avversari, convinto che l’egemonia imperiale pregna di razzismo infetti tutto e tutti.
Fortuna vuole che il protagonista non sia il solo a contrastare lo status quo: la figlia di Marco Aurelio, Lucilla (Connie Nielsen), è ancora viva e – dopo aver sposato Acacio – tira le fila di un complotto per destituire Geta e Caracalla, così da restituire il potere al Senato e al popolo. Le ribellioni si moltiplicano nell’ombra e per le strade non esiste una divisione netta tra buoni e cattivi; il motto da seguire è vae victis.
L’ottimo personaggio di Paul Mescal si inserisce nelle cospirazioni aspirando proprio all’ideale di Marco Aurelio e – spronato da Macrino – si fa strada con rabbia, o meglio, incarnando il concetto greco/socratico di thymos: il desiderio umano di riconoscimento e, per estensione, la volontà del popolo di avere un peso all’interno del governo e di essere considerato alla pari dei potenti. Nel corso delle vicende, insomma, Annone torna a fare i conti con il suo passato legato a doppio filo con Massimo Decimo Meridio e Lucilla, chiedendosi se dare vita a una Roma diversa – al limite dell’utopia – sia effettivamente possibile.
“Ciò che facciamo in vita riecheggia nell’eternità” tuonava Luca Ward nella versione italiana de Il Gladiatore, ed effettivamente il primo film riecheggia più e più volte all’interno della storia di questo sequel. In altre parole, con la presa di coscienza del protagonista, i rimandi visivi e narrativi all’opera del 2000 si fanno via via più coerenti e importanti. L’amato gladiatore Massimo non è un semplice ricordo, ma – anche da morto – assume un ruolo di spicco grazie ai suoi insegnamenti lasciati ai posteri. Non solo: le musiche vigorose, composte dal prolifico Harry Gregson-Williams (Kingdom of Heaven, The Martian), strizzano l’occhio a Klaus Badelt e all’inarrivabile Hans Zimmer, riprendendo addirittura il celeberrimo brano Now We Are Free nelle scene più struggenti.
Di conseguenza, Il Gladiatore II non è una banale parabola di vendetta o un parco giochi per americani, ma un kolossal intriso di messaggi da trasmettere al grande pubblico; una storia che cambia volto ricollegandosi intelligentemente al capitolo precedente e sovvertendo le aspettative create dai numerosi trailer. A questo proposito, di assi nella manica ne ha persino il Generale Marco Acacio, comprimario più complesso e sofferente del previsto che – forte della buona prova attoriale di Pedro Pascal – non veste solo i panni dell’eroe romano contrapposto all’eroe barbaro Annone. Il soldato, infatti, è parte di un gioco di potere più esteso e riserva sorprese che vanno oltre le scazzottate al Colosseo.
Macrino è, infine, la terza pedina dell’intreccio: un deuteragonista influente, doppiogiochista e machiavellico, portato in scena da un algido Denzel Washington la cui performance stellare richiama il bellissimo lavoro svolto in Macbeth di Joel Coen. Il suo terreno d’azione prediletto è, ovviamente, l’arena dei gladiatori: luogo in cui non mancano trovate sceniche assai sanguinolente e giochi registici fantasiosi come un’elettrizzante battaglia navale all’interno del Colosseo, riempito d’acqua per l’occasione e decorato per rievocare un episodio delle guerre persiane del 499 a.C. Nonostante la ricchezza scenografica, Scott non perde mai la bussola e – memore della sua regia in The Last Duel – rende ogni coreografia chiara e comprensibile.
Finezze cinematografiche a parte, non si può negare però la presenza di diverse inesattezze storiche, già presenti in quantità nel lungometraggio precedente. Le “licenze poetiche” riguardano soprattutto Macrino, Caracalla e Geta (quest’ultimo colpito a suo tempo dalla damnatio memoriae), ma questa volta – a una prima visione – non mi sento di considerarle errori gravi, bensì modi per romanzare degli eventi che si estendono, con un ritmo molto buono, per 2 ore e 30 minuti. Dopotutto, si sta pur sempre parlando di un blockbuster che guarda al pubblico americano e da cui è impossibile pretendere la perfezione filologica. A essere onesti, la resa finale non è mai pomposa per il gusto di esserlo come poteva capitare nel 2000; in fin dei conti, benché il film sia votato alla spettacolarità, si tratta di un prodotto meno “USA friendly” del solito.
Il non più giovane Ridley Scott, alla veneranda età di 87 anni (!), consegna al pubblico e alla storia del cinema un sequel rischiosissimo e lo fa senza il desiderio di ottenere denaro facile, ma cercando di lanciare tanti messaggi politici. Porsi al cospetto di un classico con protagonista Russel Crowe non è un’impresa facile, a maggior ragione se pensiamo che Il Gladiatore ha rivoluzionato il modo di concepire e girare i peplum. Tuttavia, che vi fidiate o meno, per me Il Gladiatore II trionfa nella sua “gara” con l’originale, superandolo in diversi aspetti. Il tempo ci dirà se sarà degno di essere considerato un’opera di culto allo stesso modo.
A ben vedere, questa nuova pellicola ha tanti legami, voluti o inconsapevoli, con un altro “film difficile”: Megalopolis di Francis Ford Coppola. Entrambi, ponendo la città di Roma – o il suo ricordo – come sfondo, parlano di utopie, di “porre le domande giuste” per aspirare a un futuro migliore. Coppola stesso cita a più riprese Marco Aurelio, con particolare enfasi nella frase “L’universo è il cambiamento. La nostra vita è il prodotto dei nostri pensieri“; un parallelismo con quel famoso “riecheggiare nell’eternità” espresso da Massimo Decimo Meridio.
Condannando questi tempi fatti di eccessi e avidità, due anziani registi riescono a comprendere il presente e a immaginare l’avvenire meglio di tanti giovani. Dando poi sfogo al loro reciproco feticismo per l’Impero romano, incanalano in esso i loro pensieri da dedicare ai posteri. Da notare come, in entrambi i casi, Roma sia ormai decadente e malferma, alla mercé di qualsiasi audace pronto a rovesciarla. Si potrebbe discutere a lungo di queste simbologie legate alla caduta degli governi che si sgretolano quando il popolo cessa di credere in essi; del messaggio di due vecchi che ci consigliano di guardare alle generazioni future come possibile fonte di salvezza e del dovere categorico di consegnare un mondo nuovo nelle loro mani.
Tanto ne Il Gladiatore II quanto in Megalopolis, le persone sono costrette a uccidersi per raccogliere le briciole che cascano dalle tavolate dei potenti mentre, nella sua maestosità, il Colosseo si riempie di sangue e di urla. Pochi però sembrano ricordare che “quando il Colosseo cade, cade anche Roma“. E dunque nell’utopia presente e futura che è la Roma immaginata da Scott e Coppola, specchio della società intera, possiamo ancora considerarci liberi per davvero?
La miglior vendetta è essere diversi da chi ha arrecato l’offesa – Marco Aurelio
Un ringraziamento speciale a Eagle Pictures e Alice nella Città
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