A poco più di un anno dalla sua presentazione all’80° Mostra del Cinema di Venezia, arriva finalmente nelle sale italiane The Beast (in originale La Bête), ultima opera del prolifico regista francese Bertrand Bonello, che torna a un cinema ad alto budget (per l’Europa 7 milioni sono considerevoli) dopo Coma, il suo folle progetto realizzato in pandemia e costato solamente 250 mila euro.
The Beast prende ispirazione dal classico La bestia nella giungla di Henry James, ma solamente nelle tematiche, rielaborate in chiave post-moderna e all’interno di un’ambientazione fantascientifica: nella Parigi del 2044 le intelligenze artificiali hanno ormai sostituito gli esseri umani in quasi ogni lavoro, a causa della poca affidabilità di questi ultimi per via delle proprie emozioni.
Gabrielle (Léa Seydoux), al fine di trovare un lavoro, si sottopone ad un trattamento di “Purificazione del DNA“, tramite il quale è possibile rivivere le proprie vite precedenti così da eliminare le emozioni più forti ed essere più “collocabili nel mercato”. Mentre si sta recando al centro per il trattamento però conosce Louis (George MacKay), e i due sembrano avere un colpo di fulmine. Quando inizia il trattamento, scopre che le sue vite precedenti (una nel 1910 e una nel 2014) sono legate alla tumultuosa relazione con quello stesso uomo.
La scena con cui si apre il film pone subito l’accento sulla chiave di lettura del titolo: Gabrielle nella sua vita del 2014 è un’attrice, ed è immersa completamente nel green screen di un teatro di posa, impegnata a girare una scena. Il regista, come voce fuori campo, le comunica che tutti gli oggetti di scena verranno aggiunti in post-produzione, ma soprattutto la avverte che dovrà apparire una bestia, e che lei dovrà urlare non appena l’avrà “vista”. Quando questo succede, l’immagine digitale della nostra si glitcha e si distrugge, fino a far comparire il titolo del film. Diviene chiaro quindi come la bestia del titolo sia qualcosa di fantasmatico, che infesta sia la vita della protagonista sia le immagini del film, che però può diventare definibile o visualizzabile solamente “in post”, proprio come un trauma sepolto nell’inconscio. E quel trauma è proprio la bestia, che, tramite il processo di purificazione del DNA, la Gabrielle del 2044 necessita di eliminare forzatamente, per poter essere inserita in una società che vuole solamente estirparlo senza possibilità di capirlo o elaborarlo.
Il rapporto romantico tra i due personaggi viene così esplorato solo tramite le sue potenzialità inespresse, con le vite passate che sembrano quasi delle vite alternative, in cui gli eventi però finiscono per prendere sempre la stessa piega; non tanto per una sorta di predestinazione o determinismo cosmico, quanto più per un filtro sempre presente tra i due personaggi che li rende incomprensibili l’uno all’altra. In ogni tempo e in ogni luogo, uno dei due è vittima di quella “bestia” che non è ancora arrivata, ma che si percepisce essere in agguato, non permettendo mai al personaggio di liberare la propria libido e i propri sentimenti castrati da quest’ansia.
Bonello mette fisicamente in scena questo filtro all’interno dell’immagine filmica, non limitandosi ai glitch distruttivi, ma scomponendola tramite camere di sorveglianza, smartphone, effetti visivi, riavvolgimenti o liquefazioni digitali in cui i personaggi si perdono non riuscendo più a ritrovare non solo la propria identità, ma soprattutto il modo di comunicare tra loro. Con l’avanzare delle epoche, la tecnologia – sia quella contemporanea che quella fantascientifica – non fa che amplificare, secondo il regista, quell’incomunicabilità intrinseca tra due persone, che ora devono fare i conti non solo con la propria versione reale, ma anche con tutte le frammentazioni digitali (internet, social, eccetera) a cui si viene sottoposti continuamente.
Le sovrastrutture formali e narrative che il film aggiunge ad ogni riavvolgimento della storia di Gabrielle e Louis non fanno che allontanare i due amanti, che col passare delle epoche sembrano riuscire sempre meno a raggiungere l’obiettivo della loro esistenza (filmica e non): l’amore dell’altro. E se quindi la soppressione di qualsiasi complicazione può sembrare una soluzione valida (ed è ciò che il film stesso propone ai due protagonisti), si rivela in realtà quella più distruttiva, perché elimina qualsiasi tipo di interiorità, riducendo l’essere umano ad un guscio vuoto. Anche nella costruzione dell’immaginario fantascientifico, lo stesso regista ha dichiarato di voler mantenere la maggior parte dei palazzi storici della città per dare un senso di realismo, perché è impossibile che tutti vengano sostituiti nel giro di vent’anni, ribadendo così come sia impossibile immaginare un futuro senza una rielaborazione del proprio passato, cosa che invece la purificazione del DNA vorrebbe rendere possibile.
Nelle sue quasi 2 ore e mezza di durata – forse un po’ troppe – il film di Bonello sembra quindi essere un manifesto di come i rapporti umani, e quindi anche la narrativa che li racconta e il cinema che li ritrae, siano cambiati negli anni, e di come l’era digitale abbia ampliamente influito, tramite lo scomponimento e rimescolamento delle sue varie componenti, fino ad un punto di in cui la ricomposizione sembra quasi impossibile. La tecnologia permette di zoomare a piacimento sulla singola parte (come può essere il trauma), rendendola molto più impattante e totalizzante di quanto invece non sarebbe osservandola nel complesso, insieme alle altre, in cui la somma delle varie è più della singola.
È lasciato quindi allo spettatore l’arduo compito di dissezionare tutte le sovrastrutture del film per ricostruire la narrativa classica, consapevole però che sicuramente, nel processo, anche lui stesso verrà risucchiato dalle stesse dinamiche che invece è chiamato a smontare. Il cammino per l’autocoscienza decostruita è interminabile, ed è per questo che probabilmente, per tutti come per i personaggi del film, è più facile lasciarsi trasportare dal contesto e finire come tutta l’équipe del film: non più singole linee nei titoli di coda, ognuna col proprio nome e con la propria identità, ma un unico, impersonale (e sicuramente più produttivo) QR Code.
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