Sviluppato da Odd Meter e pubblicato da 11 bit studios, Indika ci porta in una Russia del XIX secolo alternativa. La protagonista è per l’appunto Indika, una giovane suora con una peculiarità: sta portando avanti una battaglia interiore con la voce del demonio che le parla nella testa. Se il problema fosse solo questo, Indika saprebbe anche controbattere, ma l’entità è in grado di strabordare anche nel mondo reale dandole delle visioni a dir poco spiacevoli. Visioni che, nonostante l’utile pratica della preghiera, spesso sfuggono totalmente al controllo della ragazza, portandola a reagire istintivamente e finendo per mettere a disagio le consorelle.
Questo la pone in una situazione di solitudine e ostracizzazione che, dopo la sua ennesima uscita non necessaria, si trasforma in una missione all’esterno. La madre superiora infatti le affida il compito di consegnare una lettera in un posto lontano, forse con la speranza di scrollarsi dalle spalle questo problema.
Un titolo in odor di santità?
Dopo una piccola e volutamente tediosa sessione di gioco nel convento, verremo quindi proiettati all’esterno, nel cuore del racconto, cominciando a vivere le gioie e i dolori di questo piccolo indie. Esatto, gioie e dolori. Visto il poco tempismo con cui arriva questo articolo (il titolo è disponibile dal 2 maggio), nel frattempo ho avuto modo di sentire spesso scomodare il termine “capolavoro” parlando di Indika. Io, dopo averlo giocato, francamente mi sento di dire che non lo ritengo tale, lo metto subito in chiaro.
Credo che in molti abbiano avuto la tendenza a idealizzare Indika perché prova a fare “molte cose” che solo di rado vediamo realizzate in questo medium, ma per quanto mi riguarda nessuna di esse è totalmente a fuoco. Faccio queste premesse perché reputo che approcciare un’opera con le giuste aspettative sia il modo migliore per riuscire ad apprezzarne il valore. D’altro canto ci tengo a sottolineare anche gli innegabili pregi del titolo di Odd Meter, il più grande dei quali è quello di provare quantomeno a intavolare un discorso preciso, nonché manifestare una propria identità.
Un racconto che osa, ma soltanto un po’
Passiamo però a sviscerare le “molte cose” a cui ho fatto riferimento. Partendo dal genere di appartenenza, Indika è quasi un walking simulator contaminato da elementi puzzle, che viene ciclicamente invaso da singoli livelli ispirati a opere del passato in pixel art: fasi platform, un livello alla Frogger, uno in stile Super Cars e uno pseudo Pac-Man. Ma Indika è anche un gioco fortemente narrativo, che sa guardare ad altri media, che vuole parlare del videogioco in quanto tale, discorrere di bene e di male, di libero arbitrio e che, per giunta, vuole fare tutto questo in poco più di 3 ore di gioco. La longevità in sé non sarebbe un problema, anzi, in questo momento della vita per me i giochi “corti” sono una vera e propria benedizione. Il problema è che Indika vuole fare davvero troppo in troppo poco tempo, e per forza di cose è difficile trattare tutto in maniera adeguata.
L’aspetto più in risalto del titolo è la storia stessa, con le vicende raccontate attraverso qualche cutscene e il gameplay principale. Il viaggio della giovane sorella si svolge all’interno di un mondo opprimente, una Russia in cui la religione è onnipresente: troviamo ovunque reliquie e candele votive che attendono di essere accese per onorare la figura sacra di turno (Maria, Gesù, occasionalmente perfino Karl Marx), e più andremo avanti, più la presenza della religione sarà maestosa e rilevante.
La narrazione visivamente dimostra una tecnica degna della settima arte: sono palpabili le ispirazioni ad Andrej Tarkovskij e Carl Theodore nella messa in scena, ma c’è anche un occhio al cinema più recente, così da offrirci un racconto in grado di mantenere alta la nostra attenzione, senza risultare mai troppo pesante. Abbiamo inoltre inquadrature sghembe, atipiche, desaturate, utili a rafforzare la sensazione di oppressione, per poi passare a primi piani ravvicinatissimi quando si vuole trasmettere disagio.
Il linguaggio cinematografico si fa quindi portatore del messaggio nell’incontro con i temi di gioco principali: la religione e, soprattutto, il concetto di libero arbitrio. Questi elementi torneranno a più riprese mentre Indika, come se ci trovassimo in un romanzo di Dostoevskij, discorre ora con il diavolo, ora con il suo compagno di sventure principale, un fuggitivo alla ricerca di un miracolo. Si parla di bene, male, paradiso, inferno, comandamenti, scelte e situazioni di vita.
Il gioco vuole parlarci di tutto questo e prova a farlo anche attraverso la sua matrice ludica, consegnandoci un paio di momenti davvero interessanti, in cui gli elementi di gameplay vengono usati per rafforzare i concetti. In alcune fasi la voce del demonio irrompe strappando letteralmente l’ambientazione, virando al rosso del mondo infernale. Durante queste sessioni la preghiera ci permette di ritornare alla normalità, e l’alternanza di questi elementi ci concede la risoluzione del puzzle di turno.
I problemi si manifestano però quando scendiamo ad analizzare il tutto con una lente più rigorosa. I temi sono interessanti, maturi ma, pur osando mostrare lo sporco dell’animo umano, non si spingono mai oltre la soglia del già sentito. Rimaniamo quindi con le solite domande aperte di sempre, senza che Indika abbia saputo davvero aggiungere nuovi stimoli al discorso, e senza raggiungere quindi quella profondità sperata (non spacciatemi la sequenza allo specchio come un capolavoro di messaggio, per favore). Le sopracitate soluzioni di gameplay invece vengono semplicemente lanciate nel mucchio e utilizzate un paio di volte, senza arrivare a un’evoluzione che riesca a essere catartica.
Videogiocare per parlare di videogiochi
L’altra anima principale di Indika è quella che guarda al videogioco e alla sua storia. Il titolo si apre con una sequenza di caduta realizzata in pixel art e, come detto, varie altre irromperanno ciclicamente a spezzare il classico racconto. Queste vengono usate per mostrare il passato della donna e farci capire come, e perché, sia finita in convento. Nel farlo si concederanno anche nostalgiche e piacevoli incursioni nel passato del videogioco, peccato che ancora una volta finiscano per essere poco più che espedienti singoli, usati a mo’ di citazione e gettati via poco dopo.
C’è poi l’interessante critica al medium che tenta di mettere a nudo la sua futilità. Il gioco ci spinge più volte a svolgere compiti inutili, vedendoci accumulare punti utili soltanto a sviluppare un albero delle abilità in grado di aumentarne ulteriormente l’accumulo. Anche questo discorso però finisce con l’essere fine a sé stesso, ed è interessante solo perché ha il coraggio di manifestare apertamente la sua inutilità. Quello che ci si dimentica è che certi aspetti dei giochi acquistano naturalmente valore proprio in virtù della loro ripetizione, intesa però come strumento per spronare il giocatore a migliorare.
Riempire un catino d’acqua cinque volte per poi vederlo svuotare a terra è sicuramente un’intuizione interessante, perché correlata a certe operazioni automatiche svolte passivamente, ma in che modo viene approfondito il discorso se poi non è accompagnato da alternative ludiche strutturate e interessanti? Alternative che purtroppo in Indika mancano. Ripensando alla sequenza dei pesci di What remains of Edith Finch, ad esempio, trovo già una lettura del concetto di ripetizione ludica (e di vita) ben più affascinante e strutturata. Davvero basta semplicemente dirlo per venire innalzati al rango di capolavoro? Basta quindi lanciare degli input al videogiocatore per far sì che sia lui a svilupparli?
A questo punto potrebbe sembrare che io abbia disprezzato il gioco ben più di quanto non sia in realtà, ma penso che il mio problema in questo senso sia legato principalmente alle altissime aspettative che molti commenti mi avevano creato, e che io voglio invitarvi a ridimensionare per non incorrere nella mia stessa sorte.
Indika è senza dubbio un gioco interessante, che spicca grazie a una componente cinematografica di alto livello, un design del mondo e delle ambientazioni in grado di affascinare e catturare, e un’atmosfera generale che supporta ed esalta il racconto. È un gioco che sa coccolare i giocatori più nostalgici attraverso una deliziosa pixel art, e i cui temi possono accendere sicuramente qualche riflessione nei giovani giocatori, alle prese per la prima volta con un’opera di questo tipo.
Ciò che ho apprezzato maggiormente di Indika però è la volontà di provare a dire la sua senza compromessi, senza provare a inseguire un mercato che spesso non sa nemmeno dove vuole andare. Non sarà il demonio né sua santità, ma per alcuni di voi sono certo che si rivelerà un’esperienza da ricordare.
Special thanks to 11 bit studios
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