In quello che ormai è un periodo piuttosto lungo popolato da reboot e remake, potevamo forse privarci di uno sull’uomo lupo? Sì, ce n’è già stato un altro nel 2010, ma niente paura: dopo la bellezza di 15 anni i tempi sono più che maturi, no?
Dalla storica pellicola del 1941 con protagonista Lon Chaney, la figura dell’uomo lupo (così come degli altri mostri Universal) ha vissuto decine di vite cinematografiche nelle più svariate salse. Ad esempio c’è stato il celebre Un lupo mannaro americano a Londra del 1981, o anche il Wolf del 1994 con Jack Nicholson, ma di veri e propri remake abbiamo avuto solo il Wolfman del 2010 dove, a mio modesto parere, nonostante diversi problemi i protagonisti Benicio del Toro, Anthony Hopkins e Emily Blunt rendevano tutto sommato la visione più che godibile.
Ma arriviamo ad oggi: dopo lo spettacolare flop de La Mummia con Tom Cruise, e la conseguente morte prematura del Dark Universe, Blumhouse si è sobbarcata il compito di riportate in auge i miti Universal con produzioni molto meno dispendiose, lasciando perdere l’idea di un universo condiviso che tanta gioia ha portato alla Marvel quanto sventura ad altri. Alla regia troviamo Leigh Whannell, che prima di questo Wolf Man aveva già diretto tre lungometraggi tutto sommato convincenti, tra cui nel 2020 proprio quello dedicato a un altro mostro classico: L’uomo invisibile.
Wolf Man racconta di un piccolo nucleo familiare composto da Blake, Charlotte e la loro figlia Ginger, che dopo la scomparsa del padre di lui si recano nella sua casa d’infanzia nei boschi dell’Oregon, dove vengono aggrediti da un lupo mannaro. A farne le spese sarà ovviamente Blake (Christopher Abbott) che, oltre a fronteggiare la minaccia esterna, dovrà iniziare a fare i conti con ciò che pian piano inizierà ad accadere in lui. Il film mette al centro della narrazione la famiglia e lo fa attraverso un rapporto padre-figlia molto semplice ma impattante, che riesce senza troppi voli pindarici a coinvolgere emotivamente lo spettatore. Come visto anche in La Casa – Il Risveglio del Male (in quel caso si trattava della madre), quando la minaccia arriva dalle persone che più di ogni altro dovrebbero proteggere la famiglia il tutto assume toni più grevi, quasi tragici, e in questo caso il tutto è amplificato dalla trasformazione lenta, progressiva e inesorabile di Blake, della quale nessuno può prevedere il punto di non ritorno.
Complementare alla tematica famigliare infatti è quella della metamorfosi, una serie inevitabile di cambiamenti nel protagonista che gradualmente lo porteranno ad una straziante impossibilità comunicativa. Un elemento semplicemente tragico, che non può che far provare pena per il protagonista, come anche per la moglie e soprattutto la figlia. La forza di tale disagio è resa in maniera ancor più efficace dalla messa in scena: il regista, semplicemente muovendo la macchina da un soggetto all’altro, ci permette di immedesimarci direttamente in tutti i membri della famiglia, evidenziando non solo i cambiamenti sensoriali di Blake, ma anche la progressiva barriera linguistica che lo imprigiona. Una soluzione quasi banale, didascalica, ma a memoria non ricordo qualcosa di simile in pellicole analoghe.
Il design del lupo mannaro di primo acchito potrebbe far storcere il naso ai più, ma nella sua semplicità (e grazie al solo make-up) prova perlomeno a distanziarsi dalla stragrande maggioranza di reinterpretazioni viste negli ultimi 80 anni. Alla luce di quanto detto finora, tuttavia si può affermare con certezza che l’obiettivo della pellicola di certo non fosse quello della spettacolarità. Non a caso la vicenda si concentra talmente sui risvolti familiari e sul creare un senso di tensione claustrofobica all’interno di questo contesto, al punto da rendere l’unico colpo di scena quasi totalmente ininfluente ai fini della narrazione. Una scelta che personalmente trovo azzeccata, visto che il suddetto colpo di scena, oltre ad essere telefonato, è anche piuttosto noto (o magari risulta telefonato proprio perché noto).
Nonostante la breve durata (90 minuti, titoli di coda esclusi), il film però procede col freno a mano fin troppo tirato per tutta la prima parte, per poi lasciarsi andare rapidamente con svolgimento e conclusione. Il risultato di tutto ciò è la straniante impressione di aver visto troppo in poco tempo, nonché poco proprio rispetto a ciò che la storia poteva promettere; insomma, una scrittura per certi versi certamente non impeccabile. A inizio film viene menzionata una leggenda dei nativi americani inerente al mito del lupo mannaro, uno spunto potenzialmente molto interessante rimasto però solo nei titoli di coda. Se da un lato è coinvolgente seguire l’inevitabile e triste disfacimento di questa famiglia, dall’altro, a fine visione, sembra quasi che tutto sia avvenuto troppo in fretta, nonostante le tematiche affrontate non solo non siano poche, ma siano anche state sviluppate discretamente.
Purtroppo, al netto delle sue qualità, l’impressione è che Wolf Man sia un film inspiegabilmente pigro, perché oltre alle giuste atmosfere e i buoni momenti di tensione e paura, le idee, gli spunti e le tematiche ci sarebbero state tutte, ma viene ridotto tutto a un semplice compitino. Eppure a suo modo, e per quanto possibile, il film riesce anche a portare qualcosa di nuovo o quantomeno non visto e stravisto all’interno del panorama di genere, purtroppo senza affondare il colpo. In un panorama cinematografico in cui molti hanno poco da dire, ma vogliono comunque strafare propinandoci minutaggi esagerati, Wolf Man fa esattamente il contrario. E sinceramente, in questo caso un po’ dispiace.
Un ringraziamento speciale a Universal Pictures
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