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Andare a vedere un film a scatola chiusa è una pratica sempre più inusuale da parte di un pubblico ormai avvezzo a social, “teaser” trailer di cinque minuti e campagne marketing aggressive. Ciononostante, io – nel mio piccolo – continuo a tenere viva questa mia abitudine, sia per non rovinarmi eventuali sorprese e scoprire un’opera piano piano, sia perché mi manca oggettivamente il tempo per tenere d’occhio la moltitudine (spesso eccessiva) di prodotti presenti sul mercato di mese in mese.
Il caso di Strange Darling in questo senso è abbastanza peculiare, poiché nonostante una buona distribuzione nelle sale statunitensi ed europee, tra la fine del 2023 e il 2024, la pellicola è purtroppo sparita dai radar italiani. È ricomparsa tra le programmazioni solo recentemente, a più di un anno di distanza, ed è quindi naturale che sia passata inosservata. Paradossalmente, tuttavia, ritengo sia un bene per ciò che questo lungometraggio vuole raccontare.
Scritto e diretto da JT Mollner – regista americano, semisconosciuto persino in patria – è stato segnato da una gestazione travagliata e da svariati screzi con la casa di produzione Miramax che però, fortunatamente, non hanno impedito all’autore e a Giovanni Ribisi – attore italoamericano assai prolifico, qui direttore della fotografia – di portare a termine il lavoro. Il gioco è valso la candela, scopriamo perché.
Sostenuto da una sceneggiatura spartana ma ricca di sorprese, Strange Darling è una terribile storia di violenza, frammentata in sei capitoli organizzati in maniera non lineare: per intenderci, il terzo e il sesto rispettivamente aprono e chiudono il film, mentre i capitoli 5, 1, 4 e 2 si susseguono in quest’ordine.
Delle didascalie introduttive spiegano che quel che vediamo è la drammatizzazione della follia omicida di un serial killer che ha operato in Oregon, negli Stati Uniti occidentali, tra il 2018 e il 2020. Tutto ha inizio nella contea di Hood River, nei pressi di un motel, dove una donna e un uomo – interpretati da Willa Fitzgerald e Kyle Gallner e noti rispettivamente come “The Lady” e “The Demon” – decidono di passare insieme una notte di sesso per coronare il loro primo appuntamento. Prima che i due possano darsi alla pazza gioia, la ragazza – dando voce a una riflessione cruciale ai fini del racconto – mette in guardia il compagno sui rischi che una donna corre nel trascorrere una serata del genere da sola con uno sconosciuto, e in via preventiva gli chiede se lui sia un serial killer. Spiazzato da questa domanda, The Demon risponde di no e così The Lady accetta di concedersi.
Questo incontro tra i due protagonisti che ho appena riassunto è solo un frammento del film che, a sua volta, viene ricostruito pezzo per pezzo tra una scena e l’altra. In realtà la sequenza d’apertura – che precede in montaggio la scena del motel – è un inizio in medias res in cui The Lady, gravemente ferita e in lacrime, fugge da The Demon armato di fucile e probabilmente intenzionato a ucciderla. Insomma, lo script mischia da subito le carte in tavola per giocare con la mente e le aspettative dello spettatore che, naturalmente, vuole scoprire e comprendere i motivi che hanno portato un appuntamento apparentemente romantico a trasformarsi in una carneficina.
Pur partendo a prima vista come un thriller canonico, in cui vediamo quello che sembra essere un banale e prevedibile gioco del gatto col topo, l’opera si sviluppa e si evolve in maniera inaspettata toccando le tematiche dell’amore tossico e del consenso, rompendo allo stesso tempo molti dei cliché del genere di appartenenza e delle love story fatte di abusi e violenza. Nello specifico, la vulnerabilità di una figura femminile chiamata a porre la sua fiducia in mano a possibili malintenzionati è solo un pretesto per insinuare il pregiudizio nelle teste del pubblico. The Lady infatti non è un personaggio convenzionale, la cosiddetta “damigella in pericolo” che tutti conosciamo, bensì una donna astuta, provocante, subdola, senza limiti etici o morali (da qui il titolo della pellicola).
Limiti che sfida proprio nella scena di sesso che precede la spirale di follia, chiedendo a The Demon di lanciarsi in una sessione iperrealistica di roleplay sadomasochista. Un gioco erotico perverso che ben delinea la personalità contraddittoria ed enigmatica di una final girl attraente ma pungente come una rosa piena di spine, portata in scena egregiamente da una Willa Fitzgerald (La caduta della casa degli Usher) molto convincente. A brillare allo stesso modo è anche Kyle Gallner (Scream 5, Smile), indovinatissimo a livello di casting: armato dell’iconica carabina a leva Winchester modello 1892 e in outfit da perfetto boscaiolo, rimane impresso per la sua presenza scenica e per i suoi sguardi carichi di cattiveria.
A fronte di queste due caratterizzazioni, additare “il cattivo della storia” sembra semplice e automatico, ma è proprio qui che JT Mollner sovverte tutto. In questo thriller con venature horror è proprio il pregiudizio a fregarci: anni di femminicidi, spettacolarizzazioni della violenza, pornografia del dolore e true crime ci portano a credere erroneamente che uno dei due sia per forza l’orco malvagio. Con lo scorrere dei capitoli, è possibile empatizzare con entrambi e cogliere quindi le sottili sfumature della faccenda, chiedendosi infine chi sia la vera vittima e chi il vero pazzo. Emblematico a questo proposito è un dialogo tra due poliziotti, che espone perfettamente una delle letture del film: la nostra abitudine viziata nel ricorrere a doppi standard quando si tratta di risolvere un qualsiasi tipo di conflitto.
Il già menzionato true crime, come avviene in Terrifier 3 e Longlegs, è una componente di spicco del film e il regista lo sa bene: quest’ultimo non ha confermato né negato se il film sia basato su eventi reali, stuzzicando consapevolmente la curiosità degli appassionati di questo tipo di narrazioni. Nei pochi, ma incisivi dialoghi non manca poi un rimando a Gary Gilmore, criminale statunitense radicatosi nella cultura pop americana, nonché figura ispiratrice per la performance di Jack Nicholson ne Il postino suona sempre due volte del 1981.
A rendere ancor più appetibile il lungometraggio è la sua estetica stilizzata, un mix tra lo stile indie della A24 e le atmosfere rurali e desolate di Non aprite quella porta e Far Cry 5, colorate da tinte accese e sature che riportano alla mente il Suspiria di Dario Argento o il grande Mario Bava. La fotografia di un sorprendente Giovanni Ribisi (Avatar – La via dell’acqua, The Acolyte) è il fiore all’occhiello di questo prodotto: un’alternanza fra interni caratterizzati da forti contrasti tra il rosso e il blu, ed esterni volutamente sovraesposti per accentuare lo smarrimento dei personaggi. Ribisi osa, e fa piacere, soprattutto se si considera la sua decisione di girare tutto in pellicola da 35 millimetri per donare al tutto una bella grana pastosa.
L’altro elemento che nobilita Strange Darling – oltre ad apprezzati frangenti splatter ben inseriti nel contesto – è il montaggio di Christopher Robin Bell (The Bourne Ultimatum, Blue Beetle) che non lascia niente al caso. Il lavoro che ha eseguito per legare ogni avvenimento in maniera logica è stato senza dubbio difficile, e il risultato finale è una tensione hitchcockiana costante che viene mantenuta mostrando o celando informazioni cruciali in momenti decisivi, soprattutto svelandoci cose che i protagonisti non sanno. Questo rimescolamento continuo dei capitoli non scalfisce il ritmo generale, davvero eccellente: in soli 97 minuti gli avvenimenti scorrono in maniera pulita e concisa, complici i personaggi e i comprimari delineati a dovere.
L’unico neo tecnico è una gestione invasiva delle musiche che non mi ha convinto per nulla: i brani vengono spalmati eccessivamente durante le scene, laddove dei silenzi ben piazzati avrebbero dato molta più forza alle azioni di The Lady e The Demon. Il loro è un intrigo elettrizzante con sfumature sexy che si articola grazie a una regia notevole ed elegante, nonostante l’efferatezza a schermo che culmina in un finale crudele e inaspettato.
Caratterizzata da una produzione a basso budget per gli standard statunitensi – il costo totale si attesta tra i quattro e i dieci milioni di dollari – la creazione di JT Mollner e colleghi ha quella freschezza e quella voglia di sperimentare con intelligenza, da gustare senza spoiler e, possibilmente, a scatola chiusa come il sottoscritto. Finalmente siamo davanti a un buon thriller solido e diretto, che confeziona con coscienza tutti i suoi contenuti e che con poco riesce a sfidare i canoni imposti dal cinema recente, dispendioso in termini di denaro e risorse, ma spesso dozzinale.
Un ringraziamento speciale a Vertice360
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