Broken Rage – Takeshi Kitano allo specchio

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Voto:

Nel mondo del cinema ci sono registi che possono vantarsi di essere associati permanentemente, o quasi, a un genere specifico. Se si parla di yakuza movie, uno dei nomi che viene subito alla mente è Takeshi Kitano, un’istituzione mondiale della settima arte. La sua infanzia, segnata da numerose difficoltà e dalla rapida diffusione della malavita giapponese tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ha influenzato gran parte della sua carriera da regista. Quest’ultima è iniziata nel 1989, guarda caso, con due ottime pellicole di genere: Violent Cop e Boiling Point – I nuovi gangster. Il primo, invece di essere un classico film sulla yakuza tipicamente nipponico o un poliziesco all’americana, appare come un’opera spiccatamente personale, caratterizzata addirittura da elementi astratti.

Il secondo lungometraggio d’esordio vede Kitano come sceneggiatore e montatore, ruoli che manterrà stabilmente negli anni. Di rottura e senza un preciso sviluppo della trama, Boiling Point permette al cineasta di sperimentare varie tecniche di regia per continuare a delineare il proprio stile, rimanendo comunque fedele ai suoi stilemi fondanti. A differenza di Violent Cop, questo film mostra per la prima volta un lato ironico, fatto di battute e azioni inaspettate altamente in contrasto con la cupezza dei thriller.

La figura di un Beat Takeshi sorprendentemente violento strideva molto con l’immagine di comico e cabarettista che si era costruito tra gli anni Settanta e Ottanta, prima di lanciarsi sul grande schermo (soprattutto grazie al successo di Takeshi’s Castle). Per questo motivo i suoi lavori da esordiente hanno spesso disorientato pubblico e critica. Il “ragazzo di Asakusa” è sempre rimasto legato alla danza e al teatro satirico, discipline che ha incorporato intelligentemente nel cinema, nonostante i primi insuccessi ingiustamente sottovalutati. Il suo nuovo lungometraggio Broken Rage non fa eccezione.

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Non è la prima volta che Kitano decide di osare inserendo il demenziale in sceneggiatura, vi ricordo infatti Getting Any? del 1994, definito dall’autore stesso come il suo “suicidio professionale”, poiché ridicolizza gran parte dei generi cinematografici preferiti dai giapponesi: dallo yakuza movie alla love story, passando per i monster movie e altri tokusatsu affini. Il tema del “suicidio artistico” ritorna nel 2005 con Takeshis’, primo capitolo di una trilogia autoironica, paradossale, dissacrante e a tratti grottesca. Il suddetto trittico è stato lanciato nelle sale – spesso a sorpresa – durante svariate edizioni della Mostra del cinema di Venezia, a riprova della volontà di prendere in giro quella stessa critica che lo ha affossato e quel pubblico che ha sancito i flop più scoraggianti.

Malgrado le stilettate, Venezia ha sempre accolto a braccia aperte il buon Takeshi, specialmente dopo il suo ritorno agli yakuza movie, consacrato da una seconda trilogia: Outrage, il cui primo episodio è stato applaudito anche a Cannes nel 2010. Come evidenzia il titolo e come ha sottolineato anche il regista in conferenza stampa, Broken Rage è legato a quest’ultimo terzetto: in barba alla Biennale veneziana, attua nuovamente una rottura con il genere gangsteristico e prende di mira, con sagacia e ironia, tutta l’eredità artistica che è stata finora descritta. Inutile dire che le risate sono assicurate.

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La trama è davvero di una semplicità sconcertante: in un piccolo appartamento vive Nezumi (Kitano), un uomo apparentemente insignificante che, in realtà, lavora come sicario al soldo della yakuza. Il suo nome in codice è Mouse e frequenta giornalmente un bar in cui gli vengono consegnate lettere – firmate da un individuo misterioso – che riportano i dettagli degli omicidi che deve compiere. Dopo aver portato a termine vari incarichi, il protagonista viene purtroppo catturato da due detective che stavano da tempo indagando su di lui, Inoue (Tadanobu Asano) e Fukuda (Nao Ōmori). In cambio della libertà, Mouse accetta di lavorare sotto copertura per la polizia e di organizzare una trappola contro la yakuza, sfruttando un giro di droga.

Questo è tutto quello che c’è da sapere sulla storia, un racconto dotato di un’eleganza ormai classica che si conclude in soli trenta minuti. I restanti trenta – per un totale di soli 62 minuti di lungometraggio – compongono una seconda parte chiamata “Spin-off“, che ribalta completamente quanto narrato, imbastendo una parodia del film stesso che riavvolge le vicende e le mostra da capo con uno stile comico. In poche parole, nel primo “atto” vediamo all’opera un killer furbo ed esperto dalla mira formidabile che, dopo mezz’ora, si trasforma in un omuncolo fantozziano, sbadato e ottuso. In maniera simile a ciò che accade in Sliding Doors di Peter Howitt, assistiamo dunque a due pellicole diverse – una seria e violenta, l’altra ridicola e spiritosa – che ripercorrono le stesse scene in modi opposti.

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L’esperimento Broken Rage mi ha convinto su più fronti, ma ciò che ho gradito di più sono state le atmosfere che, alla lontana, mi hanno ricordato la serie TV di Mr. Bean con Rowan Atkinson: i dialoghi sono pochi ed essenziali (anche nelle punchline delle battute), mentre viene lasciato spazio alle azioni dei personaggi. La comicità utilizzata è quella classica giapponese – ricchissima di gag slapstick, paradossi, equivoci e giochi di parole – quindi è possibile che non venga capita da tutti. Tuttavia, se anche voi come me avete l’umorismo rotto, nonché forgiato da anni e anni di Takeshi’s Castle e videogiochi targati Ryu Ga Gotoku, sono sicuro che morirete dalle risate (alcuni siparietti che sfruttano il fuori campo mi hanno fatto piegare in due).

La parabola del sicario Mouse, dopo avercelo mostrato come un novello Agente 47 uscito direttamente dalla saga di Hitman, viene condita da eventi inediti al limite dell’assurdo che, di tanto in tanto, stravolgono persino il contesto delle scene stesse. Un processo che instilla curiosità e immaginazione nel pubblico, perché fa nascere il desiderio di sapere in che modo possono essere alterati gli eventi già noti. È tutto un gioco divertente e divertito di un Takeshi Kitano pienamente consapevole del mezzo cinematografico e, in questo specifico caso, delle logiche dell’intrattenimento destinato alle piattaforme streaming. Non mancano infatti brevi intermezzi che, con un’intelligente trovata metacinematografica, invitano lo spettatore a riflettere su ciò che ha visto mentre ironizzano su alcuni aspetti dell’industria odierna: la lunghezza eccessiva dei prodotti contemporanei, il poco budget garantito da certi produttori, il mercato sempre più affamato di sterili film d’azione e così via.

All’evento promozionale giapponese, Beat Takeshi ha descritto la sua ultima fatica come un’opera cubista. Il découpage, però, non va a sporcare la regia che rimane semplice e pulita. Senza inutili funambolismi, la macchina da presa segue gli attori e racconta ciò che deve, forte della presenza di un Kitano che regge la messa in scena splendidamente e con un aplomb invidiabile per i suoi 78 anni di età. Le musiche di Shin’ya Kiyozuka contribuiscono poi allo stile minimal con pochi brani orchestrali ben piazzati: nel primo atto ricalcano gli stilemi dei thriller giapponesi, mentre nel secondo accompagnano i quadretti comici con suggestioni dall’opera buffa di tradizione settecentesca.

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Broken Rage è trasformismo che fa sorridere, nonsense puro e curato a regola d’arte, un film inusuale e per questo raro e rinfrescante. Quella rabbia violenta che caratterizzava i celeberrimi Sonatine e Hana-bi non c’è più, si frantuma in mille pezzi per lasciar fiorire la risata. Kitano, memore dei suoi giorni di gloria come cabarettista, ha tirato fuori dal cassetto il suo costume da giullare – o da topo in questo caso – e ha fatto una cosa sempre più rara nell’industria cinematografica odierna: giocare e divertirsi.

L’assurdo diventa un confine che può essere superato, non importa quanto la sceneggiatura diventi stupida. Certo, questo esperimento è in gran parte un esercizio virtuosistico, ma siamo così a secco di visual comedy e di “arte per l’arte” che persino un piccolo giocattolo di questo tipo può rivelarsi una boccata d’aria fresca più che necessaria. Uno stimolante promemoria del fatto che, a salvarci dalla pesantezza della vita che ci schiaccia di giorno in giorno, ci sarà sempre un lungometraggio abbastanza pazzo da strapparci una sonora risata.

Fellini e Godard sono i miei preferiti. Il paragone è un onore. Però i loro film non li ho mai capiti bene. Mi piacciono sì, ma non li capisco. Forse il mio cervello non è in grado. I miei sono di tutt’altra pasta. Non serve nessun sforzo, non c’è niente da capire, niente da spiegare. Quello che voglio è solo che la gente si diverta. O che si annoi o che si senta frastornata. Annusateli, lasciatevi andare: è solo un film – Takeshi Kitano

Un ringraziamento speciale ad Amazon e Golin

Nefasto Articoli
Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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