
Hideo Kojima, si sa, è un uomo di mondo e quando si parla di cinema può vantare un entusiasmo e una cultura invidiabili. Nel recente documentario Hideo Kojima: Connecting Worlds, il game director pone più volte l’accento sulla sua passione per la settima arte, una passione così sconfinata da aver coniato la sua bio sui social: “Il 70% del mio corpo è composto da film“. Ed è proprio grazie ai suoi profili social, X e Instagram soprattutto, che noi fan possiamo scoprire i suoi gusti cinematografici, dal momento che Kojima documenta di giorno in giorno e con rigorosa precisione i suoi viaggi dentro e fuori dal Giappone, sia per incontrare qualche star dello spettacolo, sia per condividere le sue ultime visioni in sala o i suoi recuperi nel panorama home video.
Ciononostante, poche sono state le occasioni in cui l’artista giapponese ha effettivamente parlato dei lungometraggi del suo cuore, quelle pellicole che hanno influenzato radicalmente il suo stile e la sua carriera. I nomi di alcuni di questi film vengono citati in Brain Structure – il suo podcast su Spotify – o in saggi e libri di nicchia come l’autobiografia Il gene del talento e i miei adorabili meme, o ancora in volumi dedicati alla storia dei videogiochi. Si tratta, però, di considerazioni poco approfondite, alla stregua di mere curiosità. Con l’aumento di popolarità di cui il buon Hideo ha goduto a seguito dell’uscita del primo Death Stranding, tuttavia, l’attenzione di siti web, testate giornalistiche e persino case di produzione non ha tardato ad arrivare.
A settembre del 2023, la celeberrima The Criterion Collection – azienda statunitense dedita alla distribuzione in home video di classici e film cult – ha invitato l’autore nipponico presso l’ambitissimo Criterion Closet, ricca biblioteca di Blu-Ray in cui i cineasti intervistati si divertono a discutere delle loro pellicole preferite. Più recentemente, invece, il sito francese Konbini ha intercettato Hideo Kojima a Parigi e gli ha chiesto di fare la stessa cosa, ma con un focus sulla cinematografia francese, appunto. L’obiettivo di questo articolo è dunque riassumere tutti gli interessantissimi racconti di vita vissuta che sono inevitabilmente venuti fuori in queste due occasioni, andando via via a scoprire delle perle – spesso nascoste – di grande cinema.
Il cinema giapponese tra gli anni Cinquanta e Sessanta
Anatomia di un rapimento (Akira Kurosawa, 1963)
Nel Criterion Closet, Kojima non si trattiene e, avvolto da una collezione che definisce “paradisiaca“, tira fuori il primo pezzo da novanta: Anatomia di un rapimento, capolavoro noir di Kurosawa in cui quest’ultimo – traendo ispirazione dal romanzo Due colpi in uno di Ed McBain – opera un’incursione nel cinema di genere tipicamente statunitense. Il risultato è un thriller poliziesco, imbevuto di suggestioni occidentali e ricco di approfondimenti psicologici che ha influenzato persino un altro maestro come Martin Scorsese. Di fronte a cotanta grandezza, il nostro Hideo spende poche parole: “Lo amo più de I sette samurai e de La sfida del samurai, mi ha scioccato. Guardatelo, vi prego“.
Tarda primavera (Yasujirō Ozu, 1949)
Se si nomina Kurosawa, non si può non tirare in mezzo anche Ozu, nello specifico con il suo Tarda primavera, primo capitolo della “Trilogia di Noriko” di cui fa parte il ben più famoso Viaggio a Tokyo del 1953. Nel trittico, legato da temi comuni come le relazioni familiari e le pressioni sociali, l’attrice Setsuko Hara interpreta ogni volta un personaggio diverso, ma si tratta sempre di una giovane donna non sposata di nome Noriko, per l’appunto, che vive nel Giappone del dopoguerra. Kojima ha scelto questo lungometraggio perché gode, secondo lui, della performance migliore nella carriera di Hara.
Crepuscolo di Tokyo (Yasujirō Ozu, 1957)
L’amore per Ozu è talmente sentito che è impossibile non citare anche Crepuscolo di Tokyo, un’opera che potrebbe essere sconosciuta ai più. Tra i film del dopoguerra più cupi del maestro – non solo per la trama, ma anche per le numerose scene ambientate di notte – è caratterizzato da una fotografia molto contrastata. Non a caso, Hideo Kojima commenta: “In genere i film di Ozu sono molto luminosi, questo invece è proprio tenebroso. Mi piace tanto questo cambio di stile, ecco perché ve lo consiglio caldamente“.
I racconti della luna pallida d’agosto (Kenji Mizoguchi, 1953)
Altro giro, altro capolavoro: è il turno del prolifico Mizoguchi con, probabilmente, il suo lungometraggio più bello e importante, anche conosciuto come Ugetsu. Restaurato da Scorsese in persona, è una storia di fantasmi che ha spaventato Kojima quando era piccolo, grazie alla sua messa in scena teatrale e fortemente drammatica che oscilla tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Straripante di tematiche alte come la violenza della guerra, il conflitto tra realtà e finzione e la ricerca della bellezza nell’arte, è un cult irrinunciabile per chiunque si definisca appassionato di cultura giapponese.
Kwaidan (Masaki Kobayashi, 1964)
Quando si tratta di film horror, Hideo confessa di essere un fifone e per l’occasione ci mostra un altro lungometraggio pieno zeppo di fantasmi, firmato da Kobayashi. Kwaidan è un’antologia composta da quattro episodi dalle coordinate spaziali e temporali sempre diverse, ma accomunati da eventi grotteschi e spaventosi che rendono omaggio allo sconfinato folklore nipponico, in cui non mancano mostri e spiriti per tutti i gusti.
Harakiri (Masaki Kobayashi, 1962)
Con Kobayashi, Hideo Kojima tira fuori un’altra doppietta, parlando anche dello splendido Harakiri (conosciuto come Seppuku in patria). Un jidai-geki dall’alta carica sociale, un dramma storico ambientato nel periodo Edo e caratterizzato da un soggetto spiccatamente contemporaneo. Il protagonista, Hanshiro Tsugumo, è un rōnin che lotta con forza e determinazione contro l’autoritarismo nobiliare e le tradizioni sorpassate, tutto in nome del suo codice morale. Un lungometraggio di denuncia che alterna lunghi flashback a duelli all’ultimo sangue. Scene d’azione che, stando a Kojima, hanno ispirato gli spaghetti western degli anni successivi. Semplicemente uno dei più bei film asiatici mai realizzati.
Jigoku (Nobuo Nakagawa, 1960)
Dopo questa parentesi in mezzo ai samurai, è il turno di un altro horror (a bassissimo budget): Jigoku. Stilisticamente lontano dal già citato Kwaidan – siccome implementa anche elementi gore – offre una visione personalissima dell’Inferno; luogo orribile in cui un ragazzo di nome Shiro viene catapultato a seguito di numerosi peccati. Nonostante il povero Hideo sia rimasto traumatizzato dalla prima visione avvenuta da ragazzino, gli occhi da adulto lo hanno aiutato a comprendere meglio l’artisticità di questa pellicola “surreale” che consiglia di recuperare con tutto il cuore.
Onibaba – Le assassine (Kaneto Shindō, 1964)
Con l’ineccepibile Onibaba di Kaneto Shindō, Hideo Kojima ammette indirettamente di essere masochista, poiché la prima volta che vide questo film fu da bambino durante una notte buia. Ultimo horror di questa lista, è un prodotto di nicchia basato su un’antica fiaba buddista. Un’occasione per il regista di denunciare le nefandezze della guerra descrivendo, in toni ora favolistici ora allegorici, tre personaggi invischiati nelle scorrerie violente che costellavano il periodo Nanbokucho. Durante il primo incontro tra Hideo e Guillermo del Toro, i due hanno parlato appassionatamente di Onibaba e di come questo film dell’orrore sia stato omaggiato dal regista messicano in Pacific Rim con un kaijū omonimo.
La donna di sabbia (Hiroshi Teshigahara, 1964)
Hideo conclude la sua incetta di Blu-Ray al Criterion Closet con una chicca per appassionati e non: La donna di sabbia, un dramma la cui sceneggiatura è stata firmata da Kōbō Abe, un gigante della letteratura del Sol Levante. Un racconto surreale e quasi kafkiano che, attraverso la parabola di un entomologo fatto prigioniero dagli abitanti di un povero villaggio costiero, strizza l’occhio a Buñuel e analizza la condizione alienata e alienante dell’uomo di oggi. In particolare, Kojima applaude la performance attoriale di Kyōko Kishida che interpreta la co-protagonista con cui lo studioso Niki è costretto a convivere, combattuto tra la voglia di libertà e il desiderio amoroso che, a poco a poco, si insinua nel suo cuore.
Il cinema francese di ieri e oggi
Teletrasportiamoci dal Giappone alla Francia con uno schiocco di dita e scopriamo cosa ha in serbo l’espertissimo Video Kojima. Questo il simpatico nickname donatogli dai suoi amici, vista la sua passione per le cinque videoteche che frequentava dopo il lavoro e dove affittava almeno un DVD, una VHS o un Laser Disc per ciascun negozio.
Per la testata Konbini, Hideo aveva la possibilità di parlare di molti film, ma ha spontaneamente scelto la filmografia francese per omaggiare la sua grande eredità, cruciale per gli artisti di oggi che sono stati ispirati proprio dalle pellicole europee. L’intento è provare, nuovamente, ad accendere la curiosità delle giovani generazioni con opere originali e ambiziose.
La bella e la bestia (Jean Cocteau, 1946)
“Adoro Jean Cocteau, specialmente il suo La bella e la bestia“, così apre le danze il nostro game director cinefilo. Lo descrive come un vero lungometraggio surrealista, un’esperienza scioccante sia da piccolo che da adulto. Un prodotto talmente innovativo per l’epoca da aver influenzato la versione animata targata Disney, uscita ben quarantacinque anni più tardi.
Il buco (Jacques Becker, 1960)
Un breve, ma stuzzicante commento anche per l’ultimo film della carriera di Becker, nonché esordio cinematografico di due grandi attori francesi come Philippe Leroy e Michel Constantin: “È la storia di un’evasione da un carcere, ma la sequenza in cui i detenuti forano il pavimento della cella è estremamente realistica!“. Il suddetto momento, infatti, è stato girato in un’unica inquadratura di 3 minuti 47 secondi, durante la quale i protagonisti distruggono davvero il cemento della prigione per creare un passaggio sotterraneo. Kojima è notoriamente un appassionato de La grande fuga di John Sturges, il film che ha ispirato la trama del primissimo Metal Gear per MSX; non sorprende quindi il suo affetto per quest’altro lungometraggio degli anni Sessanta.
Vite vendute (Henri-Georges Clouzot, 1953)
Quattro sbandati e due camion pieni zeppi di nitroglicerina: si prosegue dunque sul filone delle avventure adrenaliniche con un capolavoro assoluto del cinema francese che persino Hideo definisce “il migliore“. Il nostro cinefilo giapponese conosce e apprezza anche il remake di William Friedkin, ma sostiene che questa versione originale – di cui fa un rewatch ogni anno – sia davvero sorprendente grazie al suo spettacolare realismo e alla performance di Yves Montand. Due elementi che sono stati premiati al Festival di Cannes del 1953 con il Grand Prix du Festival. Avete bisogno di altri motivi per correre a recuperarlo?
Agente Lemmy Caution: missione Alphaville (Jean-Luc Godard, 1965)
È tassativamente vietato parlare di settima arte senza nominare Godard. Ecco quindi che Video Kojima mostra fiero il DVD di Alphaville. Un agente segreto, una storia ancora oggi attualissima – tra noir e fantascienza distopica – e delle scenografie in stile modernista: il fascino anarchico e ribelle di questo film è indiscutibile. La dittatura tecnocratica che fa da sfondo alle vicende ha catturato e influenzato persino Akio Jissōji, regista di alcune delle serie TV dedicate a Ultraman (Ultraseven e Ultra Q), cineasta amatissimo da Kojima stesso.
Rosso sangue (Leos Carax, 1986)
Parlando di Leos Carax (Annette) entriamo nella sfera dei lungometraggi più recenti, mentre Hideo Kojima entra in modalità fanboy: “È il mio eroe! Amo davvero tanto i suoi lavori, ma non ho ancora avuto l’occasione di incontrarlo. Quindi Leos, se mi stai ascoltando, contattami! E voi pubblico che state guardando questo video di Konbini, comprate i suoi film così potrà avere le risorse per girarne altri!“. A questa dimostrazione di affetto aggiunge una battuta su Rosso sangue, la sua pellicola preferita del cineasta di Suresnes: “Ho cercato in lungo e in largo il giacchetto giallo che indossa Alex, uno dei personaggi principali, ma non l’ho ancora trovato. Amo così tanto quest’opera che ho persino pensato di cucirmene uno uguale“. Tutto questo entusiasmo ha contagiato anche voi lettori?
Occhi senza volto (Georges Franju, 1960)
È il turno di un prodotto decisamente atipico, indigesto persino alla critica del decennio Sessanta che lo ritenne scandaloso ed estremamente violento. Occhi senza volto, ai giorni nostri rivalutato e reso cult dal pubblico, è un horror futuristico tratto dal romanzo omonimo di Jean Redon: una parabola dai toni surreali sui misfatti di un chirurgo che, dopo aver provocato con la sua guida spericolata un incidente stradale in cui sua figlia è rimasta sfigurata, cerca di ridarle un volto in ripetuti tentativi di trapianto. Ancora una volta l’audace Hideo ci racconta di essere rimasto traumatizzato dopo la prima visione fatta da bambino (rigorosamente da solo, perché non si fa mancare niente). Riguardandolo adesso riesce però a coglierne le sfumature artistiche e filosofiche ed è per questo che lo ritiene un film dell’orrore sui generis.
La jetée (Chris Marker, 1962)
A proposito di roba atipica, ecco un film perfetto per rimorchiare alle feste. Assai popolare in Giappone e apprezzatissimo da Mamoru Oshii – il regista di Ghost in the Shell – ha ispirato Terry Gilliam per la creazione de L’esercito delle 12 scimmie del 1995. Cortometraggio di fantascienza realizzato attraverso il montaggio di una serie di fotografie e di un monologo che funge da voce narrante, La jetée è più vicino a un fotoromanzo che a un prodotto cinematografico vero e proprio. Questa sua peculiarità, unita alla sua carica innovativa e sperimentale, ha conquistato tutto il mondo.
Frank Costello faccia d’angelo (Jean-Pierre Melville, 1967)
Conosciuta semplicemente come Le samouraï, questa pellicola è una delle punte di diamante del genere polar (connubio, alla francese, di poliziesco e noir). Divenuta celebre per la glaciale interpretazione di Alain Delon nei panni del killer solitario Frank Costello, è un’opera piena di riferimenti alla cultura giapponese, uno tra tutti il perfezionismo di Costello che lo avvicina a un vero e proprio samurai (da qui il titolo). Hideo Kojima rende omaggio a questo capodopera raccontandoci di aver scoperto il noir grazie a esso e alla Francia. Nota poi una certa somiglianza con Baby Driver di Edgar Wright e Drive di Nicolas Winding Refn, due tributi abbastanza palesi allo splendore di Delon in trench e borsalino.
Ascensore per il patibolo (Louis Malle, 1958)
Se soffrite di claustrofobia, state alla larga da questo noir. Basato sul romanzo omonimo di Noël Calef, questo esordio di Malle ha trasmesso a Kojima il terrore per gli ascensori. Battute a parte, la vera chicca sta nella sua colonna sonora eccezionale, firmata da nientedimeno che Miles Davis. I suoi brani sono stati improvvisati e registrati nel giro di una sola notte guardando alcune scene, un primato nella storia del cinema applaudito a livello mondiale.
Enter the Void (Gaspar Noé, 2009)
Voltiamo pagina per approfondire un lungometraggio più vicino a noi. Ambientato a Tokyo, Enter the Void è una pellicola che, raccontando di un giovane spacciatore che vive esperienze extracorporee grazie alle droghe, omaggia il cinema sperimentale e psichedelico con il suo comparto tecnico innovativo. Sono infatti iconiche le riprese dall’alto che hanno richiesto l’impiego di grosse gru per essere portate a termine. Hideo parla proprio di queste: “Il film restituisce bene la visione che i giapponesi hanno della vita e della morte. In Death Stranding viene mostrata una concezione simile. Gaspar Noé è folle, ecco perché lo adoro!“.
Barbarella (Roger Vadim, 1968)
Portate via i minorenni perché con il cult Barbarella entriamo nel reame dell’erotismo spinto. Un furbone come Kojima non nasconde la sua attrazione per questa commedia fantascientifica e parla della sua scena preferita in cui si vede “uno spogliarello a gravità zero” dell’affascinante Jane Fonda (scena che, ovviamente, ha seguito con molto interesse anche da piccolo). La sceneggiatura, tratta dal fumetto omonimo di Jean-Claude Forest, sfida la morale dell’epoca e vede come protagonista un’eroina selvaggia proveniente dal pianeta Lythion. Nel lontanissimo futuro del 40.000 d.C., Barbarella deve ritrovare lo scienziato Durand Durand, misteriosamente scomparso. Durante il compimento della missione assegnatale dal Primo Ministro della Terra, la donna ha numerosi incontri con svariati individui ai quali mostra la sua disinibita sessualità con ironia e un pizzico di malizia.
Gueules Noires (Mathieu Turi, 2023)
Questo horror è un caso isolato nella rassegna fatta da Kojima, potremmo infatti definirlo una menzione speciale. Il game director, nel tempo libero, si occupa anche di scrivere articoli di cinema per la stampa nipponica e ha colto l’occasione per citare il giovane regista Mathieu Turi (ex assistente di Tarantino, Guy Ritchie e Luc Besson). Il suo Gueules Noires è ancora inedito in Italia, ma sembra un titolo dalla sinossi promettente: “Un gruppo di minatori è costretto ad accompagnare un professore a prelevare dei campioni di minerali un chilometro sottoterra. Dopo che una frana ostruisce la strada per risalire, il gruppo scopre un’antica cripta e risveglia involontariamente un mostro leggendario assetato di sangue“.
Sister (Ursula Meier, 2012)
Verso la fine di questa ghiotta lista di consigli c’è Sister di Ursula Meier, il film preferito di Hideo Kojima se parliamo della carriera della talentuosa Léa Seydoux (ormai sua grande amica dopo l’ottimo lavoro svolto in Death Stranding). Il game director desidera assolutamente che il suo pubblico recuperi quest’opera e per invogliare alla visione spende pochissime parole: “È la storia di due fratelli con un segreto da scoprire, non dirò di più”.
Si sbottona invece un po’ di più raccontando com’è lavorare con l’attrice di Parigi: “È una persona adorabile e dal fascino unico. È molto divertente lavorare con lei e lo dico perché di solito non è semplice socializzare con le star al di fuori dei momenti in cui recitano. Con Léa andiamo fuori a mangiare sushi per dirne una. Poi lei ama i film come me, quindi ogni volta che ci incontriamo mi chiede di consigliarle qualche bella pellicola e quando siamo d’accordo è sempre bello, specialmente se ci confrontiamo sulle scene che ci sono piaciute di più“.
Il pianeta selvaggio (René Laloux, 1973)
A chiudere le danze è l’unico film d’animazione menzionato finora: Il pianeta selvaggio di René Laloux, illustrato e sceneggiato assieme all’artista avanguardista Roland Topor. Tratto dal romanzo breve di fantascienza Homo Domesticus di Stefan Wul, è noto per le sue ambientazioni surreali. La sceneggiatura introduce un tema poco affrontato nel cinema di quell’epoca, ovvero l’antispecismo, un rovesciamento della classica prospettiva secondo la quale la specie umana sarebbe la più evoluta – e dunque la più importante – di tutte. “Questo è un must. Non esiste al mondo un film d’animazione simile“.
Giunge qui a conclusione questo viaggio da Oriente a Occidente alla scoperta delle passioni di uno dei più grandi autori di sempre. E voi? Avete dei gusti in comune con il leggendario Hideo Kojima o approfitterete di questa lunga lista per correre a recuperare qualche perla che non conoscevate? Qualunque sia la vostra risposta, mantenete viva la vostra curiosità per il cinema, questo è il consiglio più prezioso che si può dare. La soddisfazione più grande, in questi casi, nasce dallo scoprire storie appassionanti e dall’arricchirsi per tramandare della sana cultura di generazione in generazione.
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