Al giorno d’oggi davvero pochi titoli sono in grado di offrire qualcosa di profondamente unico, tra questi c’è indubbiamente The Town of Light, avventura grafica in prima persona sviluppata dagli italiani LKA, che hanno fatto leva sulle proprie origini per dar vita ad un gioco completamente italiano in tutti i suoi aspetti.
La storia è ambientata in un luogo reale e ricostruito fedelmente, l’ex manicomio di Volterra. Ci ritroveremo a vagare per le stanze di questo edificio abbandonato, ai giorni nostri, nei panni di Renèe, una ragazza che era stata internata lì il 12 marzo 1938, all’età di 16 anni, e che lentamente dovrà tentare di rimettere insieme i pezzi di un passato buio e doloroso. Forse nella vostra testa avrà iniziato a lampeggiare una spia, avrete intuito che qualcosa non quadra: la protagonista dovrebbe avere più di novant’anni, ma né la sua voce, né le sue mani sono quelle di una persona così anziana. Questa è solo una delle diverse stranezze con cui avrete a che fare, e le risposte ai vostri dubbi saranno meno scontate di quanto pensiate.
Ad un primo impatto The Town of Light potrebbe sembrare un horror, ma in realtà sarebbe meglio definirlo un thriller psicologico. Gli orrori in un certo senso non mancano, ma non come li intendiamo comunemente nei prodotti d’intrattenimento. Il gioco mostra in maniera cruda e spietata tutte le atrocità compiute nei manicomi di inizio ‘900, focalizzandosi in particolare su alcuni trattamenti riservati alle donne: ricoveri per “civettuosità”, aborti forzati, elettroshock, lobotomie transorbitali… tutte cose ritenute “normali” all’epoca, una sorta di “banalità del male” che già di per sé basta a far rabbrividire, ma gli sviluppatori hanno deciso di spingere ancora più in fondo la lama introducendo elementi come gli abusi sessuali sulle pazienti. A tutto ciò poi si va ad aggiungere il tragico passato di Renèe, e i motivi che l’hanno condotta al ricovero.
L’obiettivo del gioco è ben lontano dal voler trasmettere paura, quanto piuttosto tristezza e angoscia, uniti alla volontà di educare su temi di cui non si parla spesso, e magari invitare alla riflessione. Non c’è nulla di sovrannaturale, è tutto terribilmente umano, molte di quelle cose sono accadute davvero, sono accadute esattamente in quel posto, ed è proprio per questo che la trama riesce a segnare ed emozionare particolarmente.
L’atmosfera è magnifica, e il suo fascino è dato quasi completamente dalla ricostruzione attenta della location reale. Luoghi come orfanotrofi o manicomi abbandonati costituiscono un’attrattiva per molti, spesso a causa dell’alone di mistero e leggende metropolitane che li avvolgono, o un po’ per quella sensazione di “viaggiare nel tempo” che offrono, ma il più delle volte addentrarvisi sarebbe a dir poco pericoloso a causa dell’instabilità delle strutture, e si potrebbero rischiare anche delle sanzioni. The Town of Light permette nel corso dell’avventura di assaporare pienamente un’esperienza di questo tipo, senza effetti collaterali (tra l’altro il gioco supporta Oculus Rift su PC). Per non parlare poi delle foto, i documenti, le targhe dei reparti e i linguaggi dell’Italia dell’epoca: tutto è riportato nel rispetto di una certa accuratezza storica, che rende il titolo unico.
Non mancano però anche momenti assolutamente surreali e folli, soprattutto verso il finale, dove i ragazzi di LKA tra l’altro sono riusciti a dare risvolti inquietanti a “Madama Dorè” (ennesima canzoncina per bambini che non assocerò più a nulla di allegro grazie ai videogiochi). D’altronde la protagonista è pur sempre afflitta da disturbi mentali.
Renèe è un personaggio molto interessante. La sua è la storia di una ragazzina che aveva semplicemente bisogno di aiuto, di trovare il suo posto nel mondo, e invece ha visto la sua vita perdere completamente di significato dal primo istante in cui ha messo piede nel manicomio.
La sentiremo parlare in terza persona (complimenti a Daniela D’argenio Donati per l’ottimo doppiaggio), ripetere a se stessa frasi su cosa è proibito o meno fare, cercare continuamente la sua bambola Charlotte e mettere in discussione i suoi pensieri man mano che ritroviamo cartelle cliniche, lettere ed altri documenti che la riguardano. In momenti come questi, ci capiterà di essere messi di fronte a delle scelte da compiere, basate sui meccanismi difensivi nei confronti dei ricordi dolorosi trattati dal famoso psichiatra Vittorino Andreoli. Queste possono portare la storia a svilupparsi in due modi diversi, sotto certi aspetti, culminando comunque nello stesso finale.
Questa forse è la meccanica di gameplay più interessante del titolo, perché per il resto rimane tutto molto guidato e semplice, privo di qualsiasi tipo di sfida, il che è evidentemente una scelta precisa degli sviluppatori.
Una cosa fondamentale da fare è recuperare le pagine del diario personale di Renèe, per saperne di più sulla sua vita prima del ricovero (è un’impresa piuttosto semplice, basta fare un minimo di esplorazione). Carine tra l’altro anche le cutscene con i ricordi del manicomio, realizzate per mezzo di disegni che però in generale non mi sono piaciuti tantissimo.
Almeno su PS4, il comparto tecnico del titolo si è rivelato il suo punto più debole, a partire da un’impostazione della sensibilità della visuale da ritoccare immediatamente per poter giocare. Questo però è un problema di poco conto se consideriamo invece i fastidiosissimi e frequenti pop-up, a cui si accompagna un frame rate instabile. Il gioco poi soffre di un problema che ho riscontrato spesso nei titoli che girano su Unity, ovvero un colpo d’occhio complessivamente gradevole preso dalla distanza, che però poi da vicino rivela modelli piuttosto grezzi e texture dalla qualità altalenante.
Un’altra cosa che a me personalmente irrita quando la incontro in giochi di questo genere, è la lentezza negli spostamenti: in realtà qui mi è sembrato che gli sviluppatori abbiano deciso di aumentare o diminuire la velocità della protagonista a seconda delle circostanze, ma comunque trovo sempre frustrante sentirmi poco libero nei movimenti. Per fortuna questo “difetto” è smorzato dalla quasi totale assenza di backtracking.
Non c’è dubbio, comunque, che da un punto di vista artistico si sia fatto un buon lavoro, e anche la colonna sonora è piacevole, seppur (com’è giusto che sia) terribilmente malinconica.
The Town of Light è un gioco unico nel suo genere: affronta tematiche assolutamente non scontate con grande maturità e rispetto della realtà storica che c’è dietro. È in grado di lasciare un segno nei giocatori, ed è difficile da dimenticare, nonostante un comparto tecnico non proprio esaltante.
Il team di LKA ha realizzato un titolo di cui la scena videoludica italiana può andar fiera, apprezzabile tanto da chi nel nostro paese si ritrova ad un passo da questi resti di storia del ‘900, quanto all’estero. Auguro a questi sviluppatori di ottenere il successo che meritano e crescere, per continuare ad offrirci giochi di qualità sempre più alta.
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