Gettare reti in mare o arare campi. Per chi nasce lontano dalle ville signorili, nella Sicilia del 1831, questo è il destino: pescare o coltivare la terra.
Puntuale la vita della “plebe” sicula si ripete di giorno in giorno, immutabile come il trascorrere di notte e dì o come quella distanza che separa loro dai nobili, dagli aristocratici e dai ricchi proprietari terrieri. Lontananza ben nota al maggiore dei fratelli Cavalca, Salvatore detto Turi, irrimediabilmente innamorato di una nobildonna e perciò oggetto di canzonature da parte dei compaesani.
Questo distacco, però, si annulla guardando alla inconsapevolezza comune a tutti i Siciliani di quegli anni, ignari di trovarsi in un momento e in un luogo destinati a passare alla Storia: proprio in quei mesi, infatti, sta per accadere un raro evento naturale, pronto a rimescolare le carte in tavola e dare il via ad una serie di accadimenti irripetibili. Tra questi figura persino la possibilità per Salvatore di abbandonare quello stato di abietta inferiorità nella gerarchia sociale e di conseguenza riuscire a proporsi alla donna che ama.
Sfuggire alla propria miseria è un compito arduo, in cui non mancano insidie e avversari, che solo persone con un forte temperamento possono affrontare. Persone come Salvatore.
Proprio di questo tentativo narra La lingua del diavolo, scritto e disegnato da Andrea Ferraris (già autore di Churubusco e La Cicatrice) per Oblomov Edizioni.
Un primo ottimo tratto di questo libro a fumetti è la già accennata dualità della narrazione: la Storia qui diviene parte del quadro umano e rurale dipinto da Ferraris, fatto di paesaggi rocciosi e brulli, in cui vanno ad incastonarsi le vite dei personaggi, irrimediabilmente unici nel loro essere uomini e donne prima che membri di quelle rigide classi sociali attanagliate da regole il cui rispetto è doveroso, ma non volontario né tantomeno felice.
Tra Salvatore ed Antonia (la nobildonna) l’amore vive nonostante le resistenze del padre di lei, intenzionato a mantenere alto il nome della famiglia, e quelle di Vincenzo, il minore dei fratelli Cavalca, stanco di essere lo zimbello del paese assieme a lui. Frizioni esplicative del rapporto che vi è tra i due fratelli, legati da un fortissimo vincolo affettivo ma spesso in lotta, incapaci di trovare un punto di incontro tra la passione travolgente di Salvatore ed il desiderio di tranquillità di Vincenzo.
Sebbene non si possa che “parteggiare” per il trionfo dei sentimenti, ugualmente non si può che essere comprensivi con chi vi si oppone: non c’è cattiveria nelle istanze del genitore di Antonia né in quelle di Vincenzo, entrambi sono figli della propria epoca e di quella società in cui, semplicemente, aristocratici e popolani appartengono a mondi differenti. Ferraris gioca con questa ambivalenza, tessendo e intrecciando i fili narrativi e storici senza che gli uni vadano persi negli altri ma, allo stesso tempo, rendendoli reciprocamente indispensabili: se mancasse l’evento scatenante non si avrebbe l’arazzo composto dalle delicate storie dei protagonisti e personaggi secondari, che a loro volta donano al fenomeno naturale tinte inattese.
Parlando di colori, anche in questo libro le tavole sono affidate al bianco e al nero, ideali per rendere su carta il paesaggio brullo e le ripide scogliere, senza però che le vignette perdano di profondità. Un uso sapiente dei chiaroscuri e della differente saturazione del nero salva dal rischio dell’appiattimento il disegno, evitando che si rovinino le lunghe sequenze prive di dialoghi, in cui l’incedere della trama è affidato a gesti, sguardi e scorci di paesaggi molto evocativi.
Anche senza l’ausilio di testi queste pagine sono piacevolmente fruibili, lontane dall’annoiare chi legge o dal confonderlo, mantenendosi chiare anche, e soprattutto, nel proprio silenzio. Mute come le tavole dedicate ai momenti di sogno, ben contestualizzati e facilmente riconoscibili grazie all’uso di ampie “aree di respiro” bianche. Peculiare è la scelta di mantenere inizialmente celata la direzione che il libro intende prendere, lasciando che si chiarisca un poco alla volta, fino a culminare in un finale espressivo ed emozionante, summa e apice del ferreo desiderio di riscatto che muove Salvatore, anche quando tutto sembra crollare.
Scelte stilistiche così caratterizzanti, e pregevoli, inevitabilmente rendono il libro differente da quelle opere in cui tutto è chiarito sin dalle prime pagine e che non disdegnano “spiegoni” qua e là (appetibili per una fetta di pubblico più ampia), senza però trasformarlo in un fumetto d’elite adatto a pochi. Semplicemente rendono questa una lettura matura e ponderata.
Lo stesso si potrebbe dire della gestione dei personaggi secondari, definiti e tratteggiati con dovizia e precisione, ma ai quali è lasciato volutamente uno spazio di vaghezza, per evitare di distogliere l’attenzione dalle vicissitudini di Salvatore e Vincenzo. Optare per questa via, come nel caso della trama, può non incontrare il gusto di quei lettori che amano avere cast vasti e grandemente approfonditi.
Concludendo, non posso che consigliare La lingua del diavolo a tutti, ma in particolar modo a chi cerca una lettura piuttosto diversa dal solito, con un racconto umano, storico e romantico.
Un ringraziamento speciale ad Oblomov
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