Fin dalla sua nascita, quello degli heist movie è sempre stato un genere molto apprezzato dal pubblico, e tra alti e bassi non ha mai smesso di riscuotere un discreto successo, senza andare incontro a periodi di “magra” catastrofici. Ultimamente, nel bene e nel male anche grazie alla serie tv La Casa di Carta, questo tipologia di film è tornata di nuovo sulla cresta dell’onda e Rapina a Stoccolma riprende proprio un tema cardine della serie spagnola, di cui molti spettatori ignorano la vera storia e le vere implicazioni: la Sindrome di Stoccolma.
Il film, scritto e diretto da Robert Budreau, si basa su un articolo di cronaca pubblicato nel 1975 dal New Yorker, che racconta la rapina avvenuta un paio d’anni prima presso la Kreditbank di Stoccolma, e vede Ethan Hawke nei panni del rapinatore Lars Nystrom e Noomi Rapace in quelli di Bianca Lind, l’impiegata di banca sequestrata che sperimenterà la nota sindrome. Dall’inizio la storia ci viene presentata come “assurda ma vera” e il protagonista viene descritto come un fanatico del “sogno americano” ispirato dalle pellicole con Dennis Hopper e Steve McQueen, la cui rapina non ha neanche uno scopo preciso. Le forze dell’ordine vengono rappresentate come goffe e maldestre, non avendo mai fronteggiato un caso del genere, e per questo messe in cattiva luce.
Sebbene le performance attoriali dei due protagonisti siano di ottimo livello, il film sposta il centro dell’attenzione dal problema psicologico all’assurdità della situazione, spingendo fin troppo (anche modificando alcuni eventi ai fini della trama) il concetto che “è il contesto surreale ad aver generato la sindrome”, trascurando le vere interazioni e dinamiche tra sequestratore e ostaggi. La durata si attesta solo su un’ora e mezza circa, ma il tutto risulta comunque lento e leggermente pesante, nonché piuttosto insoddisfacente a causa di un mancato approfondimento dei personaggi e del tema della Sindrome di Stoccolma, su cui l’intero film è stato concepito.
Registicamente Rapina a Stoccolma non ha momenti di spicco, risulta molto lineare e scolastico, mentre una nota di merito va sicuramente ai costumi ed alla fotografia che riescono a far immergere perfettamente lo spettatore negli anni ’70, oltre che, come già detto, alle performance degli attori.
Considerata anche la durata non eccessiva non mi sento di definirlo un brutto film e sicuramente guardarlo non si traduce in tempo sprecato: intrattiene decentemente ed è in grado di coinvolgere quanto basta i fan degli heist movie e delle dark comedy. Semplicemente non offre nulla di più e si tratta di un’occasione sprecata per approfondire un problema psicologico molto interessante e sicuramente non scontato come lo si vorrebbe rappresentare.
Un ringraziamento speciale a M2 Pictures
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