Osservando la produzione cinematografica d’animazione degli ultimi anni salta all’occhio come nelle sale campeggi l’animazione 3D, e questo è un gran peccato. Non che ci sia qualche difetto insito in tale tecnica (tutt’altro, basti pensare al meraviglioso cavallo presente in Frozen II), ma spesso viene trattata con superficialità per concentrarsi solo sugli altri aspetti del film. Quando si parla di animazione, però, la tecnica non va sottovalutata.
Provate a pensare a quanta poesia avrebbero perso i fondali di Porco Rosso se Miyazaki avesse optato per il 3D, o a quanto ne avrebbe risentito il character design degli animali protagonisti de Il Re Leone se avessero tentato la strada del fotorealismo con animazione computerizzata (come dite? Ah).
Per fortuna, ultimamente siamo tornati a scoprire la bellezza delle due dimensioni grazie a film come l’instant classic natalizio Klaus e Dov’è il mio corpo (in francese J’ai perdu mon corps), primo lungometraggio di Jérémy Clapin, presentato al Festival di Cannes e distribuito in Italia da Netflix.
Il film, basato sul romanzo di Guillaume Laurant “Happy Hand“, racconta la storia di una mano mozzata che riesce ad evadere dall’ospedale parigino in cui è tenuta per ricongiungersi al suo proprietario Naoufel, giovane fattorino dal passato sfortunato. Parallelamente alle avventure che – come qualsiasi altra mano diventata senziente – la nostra protagonista si trova ad affrontare, scopriremo sempre di più sulla storia del suo proprietario. Queste avventure mute inoltre sono dirette veramente bene: la scena con i ratti su tutte è davvero carica di tensione e la mano è incredibilmente espressiva per i pochi mezzi che ha.
In soli 81 minuti Clapin ci regala una bellissima e quasi ingenua (per la semplicità con cui è raccontata) storia sull’accettazione di se stessi. Diventa chiaro piuttosto rapidamente quanto sia metaforica la vicenda, tuttavia questo non fa perdere forza al messaggio che Naoufel e gli altri personaggi vogliono ripeterci: non siamo definiti da un trauma o da un lutto subito e solo imparando a confrontarci anche con i più spiacevoli eventi vissuti possiamo tornare in controllo delle nostre vite.
La tecnica, dicevo, non è da mettere in secondo piano. L’animazione 2D (che ad essere totalmente onesti non mi è parsa costantemente fluida), unita alla palette dai colori non troppo accesi, crea un’atmosfera fortemente poco realistica, fantastica nel senso letterale, che per l’appunto aiuta a derivare dalle immagini la gigante metafora celata poco sotto. Inoltre Clapin in questo modo ripulisce dal gore e dall’estetica della violenza la mano mozzata, che altrimenti, con altre tecniche che perseguono maggiormente l’aderenza alla realtà, sarebbe stata per molti un facile motivo di distrazione se non un vero e proprio ostacolo alla visione del film.
Fortunatamente il grande lavoro di Jérémy Clapin e del suo team sta ottenendo riconoscimenti anche presso festival e “awards” vari e, nonostante questi premi non siano – e non debbano essere – ciò che più conta nella produzione artistica, fa molto piacere vedere una pellicola così interessante candidata agli Oscar come miglior film d’animazione.
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