Avete presente i documentari che solitamente compaiono nei film americani, quelli interminabili e soporiferi riguardanti pratiche di ogni sorta di qualsivoglia tipo di animale, dall’accoppiamento al suo letargo? Immaginate che il cinema italiano sia sopravvissuto a lungo in quella stasi, in quell’atmosfera sospesa nell’incertezza, nella vacuità della ricerca di un soggetto originale che tardava, però, ad arrivare. Un impossibile circolo vizioso azionato dalle odiose pratiche adottate dalla stragrande maggioranza delle case di produzione italiane, che ha causato in pochi decenni il declino del cinema di genere e il suo affossamento quasi totale, relegandone il potenziale e seppellendolo sotto strati di melense commediole ed annacquati drammi esistenziali. Il glorioso cinema italiano era alla deriva già a partire dalla fine degli anni ottanta, quando le prime produzioni di stampo televisivo si affacciavano sul grande schermo (complice l’arrivo sulla scena nazionale delle televisioni private, Mediaset in primis). L’horror, il thriller e il giallo sarebbero stati irrimediabilmente danneggiati per anni da questa sventura, grandi artisti del calibro di Bava Jr., Fulci, Margheriti e Lenzi videro sempre più svanire le proprie libertà creative ed i budget a disposizione, sostituiti da sempre più pressanti limitazioni censorie dovute alla televisività dei progetti loro proposti. Se il cinema italiano di genere ha subito un declino così forte, gran parte della colpa va infatti imputata proprio alle produzioni e all’entrata in campo della televisione privata, ma i gusti stessi del pubblico erano in pieno mutamento.
Tuttavia negli anni che spaziano dai ’60 agli ’80 il cinema di genere italiano aveva incluso al suo interno anche altri sottogeneri importanti, tra questi lo spaghetti western ed alcuni esperimenti interessanti legati al post-atomico ed al fantascientifico. Sono di quegli anni lavori come 2020 – I Gladiatori del Futuro (1982, Joe D’amato), Blastfighter (1984, Lamberto Bava) e I Guerrieri dell’Anno 2072 (1984,Lucio Fulci), tentativi ancestrali, artigianali ma incredibilmente creativi di sviluppare un genere che in Italia aveva già fatto fortuna con Margheriti ma che, in brevissimo tempo, sarebbe stato destinato al cestinamento, salvo rarissime riproposizioni eccellenti. Index Zero rientra a pieno titolo in queste, si tratta di un esempio perfetto di cinema distopico fatto con credibilità e spirito d’iniziativa, un film che nel 2014 Lorenzo Sportiello ha presentato anche al Festival del cinema di Roma. Scritto da Claudio Corbucci (anche autore della crime story seriale di Gagliardi Non Uccidere), l’opera è ancora lontana dalla distribuzione, sia nelle sale che in home video, relegando di fatto uno dei rarissimi esempi di cinema fantascientifico made in italy degni di menzione all’oblio lento e inesorabile in cui sono costretti i film mai distribuiti.
Se a Sportiello è toccata questa sorte, la stessa non è avvenuta per un altro esempio di cinema para-fantascientifico, quell’Arrivo di Wang dei Manetti Bros. che nel 2011 ha fatto gridare al ritorno della fantascienza in Italia. Ma a torto. Il film dei Manetti, tecnicamente un aborto se non in alcune rare scelte fotografiche, si basa su effetti digitali incredibilmente datati e su alcune scelte di casting discutibili, pur conservando un certo fascino nello sviluppo del plot. L’arrivo di un alieno sulla terra ed il coinvolgimento di una interprete di lingue orientali nella traduzione del suo interrogatorio si sarebbero potuti sviluppare in ben altre modalità, ma le sale, forti del nome dei due registi, hanno permesso una buona distribuzione dello stesso, similmente all’altro lavoro degli stessi registi ma di genere horror Paura 3D (uno dei primi esempi di tridimensionalità nell’horror italiano, abominevole in quasi ogni aspetto), all’interno del quale sono confluite una storia incapace di trasmettere alcunché, interpreti di dubbia efficacia e stile registico pressoché assente.
I soliti nomi puntualmente escono nelle sale, a scapito di piccoli lavori che invece devono faticare per trovare una propria distribuzione. Per trovare i giusti finanziatori e distributori spesso gli autori sono costretti a girovagare in lungo e in largo, bussando le porte ai più disparati finanziatori, terminando così la loro corsa in un nulla di fatto di proporzioni fallimentari. Fortunatamente ci sono storie che finiscono con un lieto fine distributivo, anche se spesso i protagonisti appartengono al cinema drammatico che, in questi anni, ha sviluppato delle ottime chicche in grado di reggere il confronto con il cinema europeo: degni di menzione sono Salvo (2013, Fabio Grassadonia – Antonio Piazza), Cloro (2015, Lamberto Sanfelice), L’Attesa (2015, Piero Messina), Wax: We Are The X (2015, Lorenzo Corvino) ma anche lavori più squisitamente di genere che hanno permesso di tornare ad esportare il cinema italiano anche all’estero: esemplari sono i casi di Lo chiamavano Jeeg Robot, Il Racconto dei Racconti, Suburra, Non essere cattivo e Veloce come il Vento.
Se con Il Racconto dei Racconti il regista di Gomorra ha riportato in primo piano una pagina della letteratura italiana ormai dimenticata, legata a “Lo cunto de li cunti” e stretta a doppio nodo al fantasy, allo stesso tempo è stato in grado di dipingere con stile una serie di quadri viventi in cui ha incorniciato star internazionali incluse in ambientazioni italiane di indubbio fascino.
La morte di Claudio Caligari ha, invece, accelerato il processo di proliferazione e conoscenza di uno dei lavori più belli degli ultimi anni, quel Non essere cattivo che tante vittime nella critica ha mietuto con il suo stile particolarissimo. La periferia romana, con precisione l’amata Ostia protagonista anche di L’Odore della Notte e Amore Tossico, viene descritta abilmente dalle scorribande di due personaggi di cui ci si potrebbe fidare ben poco, interpretati da Borghi (Suburra) e Marinelli (sempre perfetto in ogni ruolo). Sempre attratto dalle varie sfaccettature del bene e del male, Caligari si prende cura dei suoi personaggi come di moderni accattoni pasoliniani, siglando il suo film più paradigmatico.
Lo Chiamavano Jeeg Robot
Gabriele Mainetti è piuttosto conosciuto nell’underground italiano poiché è stato l’unico in grado di dare dignità al personaggio di Lupin, sia stilisticamente che narrativamente. Il Lupin di Mastandrea, contrapposto allo Zenigata di Insinna nel corto Basette è quanto di più concreto si potesse realizzare per renderne onore in un prodotto ideato da fan; scritto da Guaglianone (lo stesso autore di Jeeg Robot), in quest’opera Mainetti getta i semi del suo futuro registico, lasciando dietro di sè una scia stilistica impressionante. Otto anni dopo, privo di qualsiasi appiglio produttivo, si autofinanzia nel suo primo lungometraggio, gettandosi a capofitto in un genere che i più avevano preferito lasciare a margine per diverso tempo: il supereroistico. Se pochi anni prima Gabriele Salvatores, con risultati altalenanti e indirizzando la pellicola ad un pubblico adolescenziale, aveva tentato di riportare in auge il genere con Il Ragazzo Invisibile, Mainetti fa di più. Costruisce un universo in cui far muovere il proprio romano di periferia alternativo ai soliti supereroi, privandolo dei soliti cliché e banalismi, e rendendolo autonomo rispetto alla mole americana. Santamaria si ritrova così faccia a faccia con un detestabilissimo villain, interpretato da un Marinelli in stato di grazia, costantemente in balia del suo futuro. Se questo genere avrà una sua nuova genesi, il merito andrà tutto al regista. Ah, si. In Italia abbiamo avuto i nostri supereroi nel bel periodo d’oro del cinema (Diabolik di Mario Bava, Satanik di Piero Vivarelli, Dellamorte Dellamore di Michele Soavi), ma ovviamente l’oblio di tali pellicole è spesso dietro l’angolo.
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Suburra
Stefano Sollima è uno che è cresciuto a pane e cinema. Figlio di Sergio, già regista degli anni d’oro, ha trascorso l’infanzia sui set paterni, acquisendo più materiale registico possibile per il futuro. Avendo sulle spalle un’ottima esperienza nella serialità di alta qualità (ha diretto due capolavori a lunga durata come Romanzo Criminale e Gomorra La Serie, preparandosi a dirigere per Netflix la serie di Suburra), Sollima ha avuto la strada spianata per dirigere il suo primo lungometraggio, A.C.A.B., il quale però dimostrava ancora qualche acerbità registica. Con il secondo lavoro si riscatta in pieno, tratteggiando una Roma nerissima, traboccante melma da ogni tombino, in grado di risucchiare nelle sue spire ogni personaggio presentato nella storia. Abilissimo nella direzione degli attori (Amendola viene ri-sverginato come attore proprio da lui), oltrechè dotato di uno stile visionario unico in Italia, si appoggia ad una storia labile che però si fa forte del futuro sviluppo seriale della stessa. Roma non era mai stata fotografata così cupa, così nera. Nemmeno l’howardiano Angeli e Demoni ne aveva tratteggiato una cupezza simile, Suburra è il punto di non ritorno, in positivo, del Sollima cinematografico.
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Veloce come il Vento
Supereroi ne abbiamo avuti, i noir sono tornati, gli horror sono sempre dietro l’angolo. Ma gli action con gare automobilistiche sullo sfondo? Veloce come il vento supplisce a tale mancanza con una pellicola diretta da un Matteo Rovere mai così in forma, un tour de force adrenalinico nel mondo del gran turismo attraverso gli occhi di una ragazza in conflitto psicologico per il ritorno del fratello tossicodipendente dopo la morte del padre, in pieno svolgimento del campionato italiano. La convivenza forzata con lui la porterà a riconsiderare la propria visione della vita, oltre ad un sostanziale riposizionamento nel campionato stesso. Rovere miscela dramma ed azione senza esasperarne la tamarraggine, senza eccessi ma anche senza difetti, lasciando campo libero ad uno Stefano Accorsi calato a perfezione nel ruolo, seguito “a ruota” da una bravissima Matilda de Angelis. Il romagnolo avrebbe potuto rendere il tutto troppo regionalistico, eppure il film si regge sulle sue gambe e mostra di non avere il freno a mano tirato, anzi.
Il cinema italiano riprende la sua marcia trionfale verso il successo, ritorna sui binari di genere riprendendosi tutti gli anni di arretrato di cui era stato privato, si reindirizza verso un futuro non troppo lontano in cui ogni produttore saprà suddividersi equamente tra prodotto commerciale, autoriale e di genere, riuscendo a soddisfare ogni palato e rimpinguando ugualmente le casse della propria casa di produzione. Gli attori sono più che presenti, i registi capaci. Il panorama è in evoluzione, e a noi non resta che supportarlo.
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