Una storia straordinariamente intensa quella di Oblio del collettivo Mojo – pubblicato da DOUbLe SHOt – e ancor più sperimentale del loro precedente lavoro, Anomalia.
Se c’è qualcosa di più difficile del prendere delle storie radicalmente diverse per soggetti e stile e riuscire a trovare un legame tra loro, è scrivere un’unica storia ma raccontata attraverso diverse matite. Oblio segue le vicende di Enea, giovanissimo ragazzo costretto a fare i conti con uno dei più grandi traumi che una persona possa provare: il lutto; le conseguenze si traducono anche nel dover rimettere insieme i frammenti della propria esistenza e affrontare un viaggio – come la sua controparte mitologica – alla riscoperta delle emozioni e di sé stesso.
Mentre la sceneggiatura è opera di un solo autore, Maurizio Palarchi, ad occuparsi dei disegni sono ben otto artisti – ognuno responsabile di un capitolo del volume – il cui contributo è stato fondamentale per rendere unico l’esperimento, nonché senz’altro riuscito.
Il suo valore più grande, difatti, è la differenza che anima ogni capitolo; il merito di Palarchi è senza dubbio l’aver scritto dei capitoli relativamente autonomi, fatti di flashback, sogni e flusso della storia, intersecandoli in modo che ogni segmento viva di vita propria e che l’opera complessiva, esclusi il primo e il secondo capitolo, si possa leggere nell’ordine che più si preferisce. Ognuna di quelle che potremmo definire parentesi, sogni, flashback, terapia e convalescenza in ospedale, possono essere trattati in qualunque modo dal lettore. Trattandosi di una vita spezzata che ha bisogno di ricevere degli input per lui totalmente nuovi, da qualunque punto di vista si guardi il suo dolore, il risultato è sempre lo stesso.
Un gioco che si può fare anche grazie alla volontà di non inserire delle coordinate temporali specifiche; è forse solo l’aspetto di Enea a suggerire una continuità, ma si tratta di un dettaglio non così rilevante da compromettere la possibilità, per il lettore, di crearsi una propria versione della storia. Ciò che conta, per Palarchi, non è tanto dimostrare come si affronti un dolore così grande come il lutto, ma mettere in mostra tutte le sensazioni e i sentimenti che ci sono in ballo – dal senso di smarrimento fino ai sensi di colpa che si mostrano, latenti, nella sequenza dell’incubo – delineando così un racconto la cui urgenza principale non è la linearità o la fine del viaggio, bensì l’empatia pura e semplice, ma mai banale.
È forse proprio per questo che, nonostante il finale sia particolarmente ottimista, l’opera lascia un grande senso di angoscia e tristezza; occupando uno spazio notevole, rispetto al finale, tutti i capitoli dedicati alla riabilitazione del protagonista lasciano un segno più che profondo, impossibile da ignorare. Un valore aggiunto da non sottovalutare soprattutto perché, al di là della riflessione che porta con sé, si tratta di una vera e propria educazione sentimentale quella a cui Oblio ci sottopone.
Soprattutto, la nebulosità con cui si dispiega la storia (temporalmente parlando) fa sì che il finale non stoni rispetto alla profonda disperazione del segmento precedente. Trattandosi di sole 148 pagine si ha la sensazione che tutto avvenga in modo veloce, quasi forsennato; tuttavia il lettore, non avendo punti di riferimento a cui aggrapparsi, può prendersi il lusso di collocare gli avvenimenti nell’arco temporale che più preferisce. Se di solito, insomma, l’indeterminatezza si pone come un punto debole, in questo caso è la vera e propria forza dell’intero lavoro.
A dare ancora più valore a questo interessante puzzle, inoltre, è il taglio che ogni artista ha dato al capitolo; come per Anomalia, ci sono sezioni dai colori più caldi e disegni più morbidi, mentre altri godono di proprietà opposte. L’angoscia provata da Enea durante una seduta psicologica è resa perfettamente dall’uso del blu e da uno stile poco stilizzato e lineare, facendo sì che la confusione provata dal protagonista si renda palpabile anche per il lettore; allo stesso modo le pagine più dolorose hanno un tratto e un colore che si potrebbero definire materici, capaci di uscire dalla bidimensionalità della carta e rendersi parimenti tangibili.
In tal senso una linearità si ravvisa, facendo sì che allo stile realistico ma non angosciante di Michelangelo Tani si sostituiscano i disegni molto più stilizzati di Diletta Pasquini – capaci di restituire il senso di confusione di una persona reduce da un incidente che, tuttavia, non sa ancora la verità – fino a quelli concretamente angoscianti di Nicolò Tofanelli, Giulio Ferrara, Jacopo Piergentili e Antonio Marino, nel capitolo che mostra il vero e proprio acme della disperazione di Enea. Gli ultimi tre capitoli, rispettivamente di Genny Ferrari e Alessandra Marsili, invece lavorano in senso opposto, con disegni più morbidi, quasi cartooneschi, a dimostrazione dell’utilità del viaggio affrontato dal protagonista.
Ancor più incredibile è la capacità di ogni artista di adattarsi al racconto, anche modificando il proprio stile all’interno del capitolo assegnatogli, ma rimanendo al contempo fedele alla propria matita; tanto Tani quanto Tofanelli e Marino dimostrano enorme versatilità anche all’interno del loro spazio e della loro comfort-zone, adattandosi alle necessità narrative che animano i loro capitoli, senz’altro tra i più complessi delle otto sezioni dell’opera.
Oblio è un lavoro ancor più prezioso del suo immediato predecessore, sia per il particolare esperimento messo in atto sia per le tematiche, non affatto scontate ma, soprattutto, emotivamente concrete. Ancora una volta il collettivo Mojo ha centrato il punto con una storia intensa e un progetto di gruppo tanto interessante quanto originale.
Un ringraziamento speciale a DOUbLe SHOt
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