Viviamo in una realtà incredibilmente complessa: basta anche solo una minima differenza nell’anno in cui si nasce o il luogo in cui si cresce che tutto cambia radicalmente, e in pochi anni di vissuto si possono avere esperienze e intrecci così vari e disparati che a fatica starebbero in centinaia di pagine.
Il mio migliore amico è fascista, ultimo fumetto di Takoua Ben Mohamed, parla proprio di questo. O meglio, l’autrice racconta di sé e della sua infanzia e adolescenza, da ragazza italiana di origini tunisine che si ritrova a portare il peso delle conseguenze dell’11 settembre e dell’incomprensione di professori, alcuni compagni di classe e gente random in giro per Roma che non sa farsi i fattacci propri. Ma, per quanto momenti commoventi e catartici non manchino, il tutto è raccontato con ironia, semplicità e soprattutto con dolcezza, la quale emerge dai rapporti con amiche e famiglia.
Senza fare spoiler, posso dirvi che tutto parte con l’apparentemente sconsiderata decisione di una delle professoresse di far vicini di banco la protagonista e Marco, ragazzo “fascista” (termine che quest’ultimo non sa neanche bene che significhi, insieme a “terrorista” e “immigrato”) con il quale non riesce a non litigare. I due decidono di tracciare un vero e proprio muro tra i banchi, così da potersi ignorare con tranquillità. Takoua ci racconta anche di come suo padre sia dovuto andare via dalla Tunisia perché contrario al regime, e come sua madre abbia cresciuto lei, le due sorelle e i tre fratelli maggiori da sola, prima che si potessero ricongiungere tutti insieme.
Poi però arriva il succitato 11 settembre, e da lì cambia tutto: le vicine di casa pettegole hanno paura e sbattono le porte in faccia alla madre, non si hanno conoscenze fuori dalla scuola e una maestra delle elementari fa sempre parlare la piccola Takoua alle commemorazioni per le vittime del terrorismo, perché musulmana e scura di pelle (parole della stessa docente, non sto scherzando).
La famiglia si trasferisce a Roma, e la protagonista ha un unico desiderio: come la mamma e le sorelle vuole mettersi il velo, anche solo per capire cosa si prova. Più i genitori le dicono di no, che è una scelta da fare con cognizione di causa e che ha prima bisogno di crescere e diventare più matura, più lei (anche per spirito di ribellione) non si trattiene e un giorno finalmente lo mette prima di entrare a scuola. È in quella occasione che fa il primo incontro con Marco, cosa che porterà a entrambi risvolti inaspettati nelle proprie vite.
Non proseguo oltre, ma vi assicuro che questa è solo la punta dell’iceberg: leggendo questa graphic novel scoprirete i gusti musicali di Takoua, l’esperienza con il cyberbullismo, le sue quattro splendide amiche, i cartoni preferiti della sua infanzia, quella roccia salda e sempre presente che è la sua famiglia, i suoi sogni e tanto altro. Inoltre di tanto in tanto ci sono dei piccoli inserti per fare un po’ di chiarezza su alcune cose, come sui simboli rubati e impropriamente usati dai partiti che hanno costruito dittature, la differenza tra “arabo” e “musulmano”, tra “terrorista” e “talebano” e così via.
Poi, specie sul finale, la dolcezza che citavo all’inizio si fa prorompente con la presa di coscienza di quelli che si potrebbero definire “errori dei giusti”: essere quindi in grado di ammettere di aver sbagliato anche quando si perseguono delle giuste cause o si è mossi dagli ideali che ci si sente dentro. Forse, grazie a questa consapevolezza, si può arrivare ad abbattere quei muri eretti anche in buona fede, così da essere migliori e potersi venire veramente incontro.
Un ringraziamento speciale a Rizzoli
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