Sebbene la produzione cinematografica italiana rimanga molto limitata in termini di varietà delle opere, avendo una predilezione per le commedie o i crime movie, nell’ultima manciata d’anni c’è stato quasi un risveglio, seppur tiepido ed ancora acerbo, di un cinema autoriale ma radicato profondamente nel “genere”. Lo chiamavano Jeeg Robot, Il Ragazzo Invisibile, Il Primo Re, Veloce come il Vento, Il Racconto dei Racconti, Favolacce ed i prossimi Diabolik, Freaks Out e Mondocane sono una chiara testimonianza di questa rinascita, e La Terra dei Figli si pone, complice anche la sua natura di “cinecomic”, come prova della qualità di questo tipo di opere e della potenza che può ancora avere il cinema nostrano.
La Terra dei Figli è un film di Claudio Cupellini, già noto per gli ottimi Una Vita Tranquilla e Alaska – oltre che per aver diretto varie puntate di Gomorra – ed è liberamente tratto dall’omonima graphic novel di Gipi, uscita nel 2016. Il regista ricorre al “liberamente” non per attuare uno stravolgimento completo dell’opera, ma per limarne i dettagli che potevano appesantire la versione cinematografica o risultare fuori luogo, riuscendo a lasciare inalterato lo spirito e il messaggio dell’originale.
In un’Italia post-apocalittica, devastata dai “veleni”, gli ultimi sopravvissuti son quasi tutti adulti, in quanto i bambini appena nati sono stati uccisi per evitargli di vivere in un mondo devastato. Il nostro protagonista – nella graphic novel erano due fratelli, riadattati ad un solo personaggio per motivi di messa in scena – è forse l’unico bambino a cui è stato permesso di crescere, e arrivato all’età dell’adolescenza inizia a scontrarsi con i “dogmi” imposti dal padre. L’educazione che questo gli impone è molto severa, non permettendogli neanche di avere un nome (viene chiamato Figlio), e non volendo che conosca nulla del mondo precedente per evitare che diventi debole e non riesca a sopravvivere.
Quello che però il giovane vorrebbe di più conoscere è il contenuto del diario che il padre si mette a scrivere ogni sera, e di cui gli ha sempre precluso la lettura. Il padre infatti non ha neanche mai insegnato a leggere al figlio, non essendo un’abilità importante per questo nuovo mondo, e così, dopo la sua improvvisa morte, il figlio abbandona la loro casa su una palaffita alla foce del Po’ e intraprende un viaggio per cercare qualcuno che sappia leggere i ricordi ed i pensieri del padre, che non è mai stato in grado di decifrare neanche dai suoi gesti quando era ancora in vita.
Il film è un racconto di formazione per il giovane protagonista – un fantastico Leon de la Vallée, espressivissimo – che dopo la morte del padre deve perdere sempre di più lo status di figlio per sopravvivere e andare avanti, crescendo e diventando adulto anche prima del tempo, in un mondo dove però quelli che erano già adulti hanno precluso ogni via ai giovani, e continuano a sfruttarli per il loro benessere. Questa è anche la metafora portante della pellicola, che costruisce un mondo di soli “vecchi”, dove i giovani sono stati quasi tutti uccisi da neonati, non permettendo loro neanche la possibilità di trovare la propria strada, ma tarpandogli le ali sul nascere.
Tutti i personaggi che il protagonista incontrerà sul suo cammino – in una struttura tra The Road e Cuore di Tenebra, ma senza un vero obiettivo finale – avranno qualcosa da nascondere, ma sembreranno amichevoli, facendo sempre dubitare il giovane dell’insegnamento del padre di non fidarsi di nessuno. Oltre alla Strega interpretata da Valeria Golino e il Boia da Valerio Mastandrea, a cui sono date le parti più recitate, essendo tra i migliori attori che abbiamo in Italia, tutti gli altri caratteristi svolgono egregiamente il loro lavoro, riuscendo anche a sopperire a qualche problema di dizione con un’espressività nella voce e nei gesti veramente ottima.
La Terra dei Figli è un film dolente, per qualcuno potrebbe risultare anche lento, ma non è mai prolisso. Tutti i tempi che si prende sono dovuti per immergere lo spettatore in un mondo macabro ma terribilmente reale, grazie a fotografia e scenografie fantastiche, tutte naturali e mai ricreate in studio, alle quali si aggiungono i pochi ma ottimi effetti visivi e speciali, tutti elementi che Cupellini riesce a mescolare perfettamente. Anche le musiche, composte dal cantautore indie Motta, sono perfette per il mood del film e si amalgamano ai paesaggi e ai momenti più drammatici in maniera perfetta.
Oltre la praticamente insindacabile qualità tecnica dell’opera, anche la narrazione, che segue il fumetto nella maggior parte degli eventi, arriva a discostarsene completamente solo nella parte finale, andando ad eliminare la “setta” votata ai social network – che a mio parere era già molto straniante nella graphic novel, quasi come se fosse un’ulteriore critica inserita senza però che fosse ben connessa al resto – che nel film sarebbe risultata quasi ridicola, inserendo un gruppo di sopravvissuti votati completamente all’annientamento dei ricordi, che vivono solo nel “presente” del mondo. Questo cambiamento, unito anche al peso che viene dato ad un determinato evento nelle battute finali, liquidato molto velocemente nella graphic novel, qui va a creare una delle scene più emotivamente cariche degli ultimi anni, riuscendo, nel complesso, a superare in qualità anche l’opera originale.
La Terra dei Figli è la dimostrazione che in Italia si può ancora osare col cinema, sia nel genere che nella messa in scena, creando un cinecomic che ha poco da spartire con le produzione americane, ma in senso positivo. Qui il cinema c’è in tutto il suo splendore, e si serve della storia di Gipi per raccontare del rapporto padre-figlio, dell’incomunicabilità tra di essi per via di gesti che forse verranno capiti dai figli solo a posteriori, di una società che nega la vita solo per il guadagno personale. Di film del genere ce ne sarebbe molto più bisogno, poiché una delle più alte forme cinematografiche è proprio quella che riesce ad unire “genere” ed autorialità, raccontando il contesto sociale moderno all’interno della finzione, che forse è più reale e vicina di quanto possiamo pensare.
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