La 16ª edizione della Festa del Cinema di Roma si è aperta con un film che segue la tendenza del momento, ovvero quella che vuole fare dei biopic la nuova frontiera del cinema culturale. Tratto dall’omonimo documentario del 2000 di Fenton Bailey e Randy Barbato, Gli Occhi di Tammy Faye cerca di scavare nella psicologia di Tammy Faye e Jim Bakker, una coppia di tele-evangelisti che tra gli anni ’70 e ’90 hanno creato un impero televisivo e sono poi finiti nell’occhio del ciclone per vari scandali, sia morali che economici.
Il film, prodotto dalla Fox (ormai Disney), è stato affidato a Michael Showalter, regista di commedie romantiche come The Big Sick, e vede la partecipazione di Jessica Chastain e Andrew Garfield come protagonisti, rispettivamente nei ruoli di Tammy Faye e Jim Bakker. L’incedere della pellicola è molto classico, e segue tutti gli stilemi del biopic americano, partendo dalla giovinezza di Tammy, bambina appartenente a una comunità super religiosa, passando per il primo incontro con Jim e gli inizi della loro carriera come predicatori itineranti, fino ad arrivare alla creazione del network televisivo e alla loro caduta, attraversando quasi 40 anni di storia americana. È un peccato però che il film si concentri quasi completamente sulla figura di Tammy, unico personaggio con un approfondimento psicologico degno di nota, e non usi il tempo a disposizione anche per scandagliare sociologicamente quei decenni, il che sarebbe stato molto utile per scoprire un lato dell’America ancora molto conservatore e retrogrado.
La regia di Showalter è quasi completamente inesistente, e cerca di compensare mantenendo sempre a schermo i suoi due ottimi interpreti, i quali però sono spesso costretti all’overacting (soprattutto la Chastain) rendendo molte scene grottesche senza la giusta intenzione scenica. Tammy Faye, per quanto disturbata e tratteggiata come pazza, viene comunque definita una vittima della propria incapacità di intendere e di volere, e castrata da un Jim Bakker odioso e manipolativo, che viene rappresentato dal primo all’ultimo minuto allo stesso modo, lasciando intendere allo spettatore (ma mai alla moglie) la sua malafede. Il presunto “liberalismo” della religione della donna viene inoltre ingigantito sotto l’ottica dei diritti LGBT in quanto, a fine carriera, lei si è resa paladina della comunità e viene ancora ricordata per questo, quando secondo me quella non era altro che l’ennesima mossa commerciale per rimanere sulla cresta dell’onda. Questa specie di “santificazione” del personaggio è forse la cosa peggiore di tutto il film.
La pellicola rimane comunque capace di momenti molto alti, che tuttavia rendono solo la visione carica di tristezza per il potenziale sprecato. Tutti i movimenti fraudolenti di Jim Bakker, totalmente fuori da ogni logica religiosa ma solo monetaria, sono una buona rappresentazione di come la spiritualità venga trattata come merce di scambio nella “terra dei liberi”. Così anche il finale, con un’invecchiata Tammy Faye che canta “Glory, Glory Hallelujah!”, è forse la scena più potente del film, dove si ha finalmente una presa di posizione verso questi “influencer” che riescono a muovere grandi popolazioni per i loro scopi, facendo capire come sia facile abbindolare le masse con una bella forma e poca sostanza. Peccato che poi arrivino le classiche diapositive da biopic a celebrare la sua lotta per i diritti e far crollare di nuovo tutto il castello di carte.
Gli Occhi di Tammy Faye è un film sicuramente interessante per l’argomento che tratta (fortunatamente estraneo alla nostra cultura), ma anche da queste 2 ore, se si è osservatori attenti, si capisce perché negli Stati Uniti ormai non sia più possibile prendere (almeno nei blockbuster) una posizione netta, ma lasciare sempre il dubbio che le cose non siano mai fatte in malafede. Tuttavia è proprio quest’operazione di ripulitura da ogni potenziale opinione che in realtà crea una linea generale che denota la vera posizione di certo cinema americano: l’ipocrisia, proprio quella che il film vuole denunciare.
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