Mi trovo davanti a un paradosso non da poco. Il potere del cane non è un western propriamente detto. Sì, certo, ci sono i “cappelloni”, i campi lunghi con i paesaggi, i tempi dilatati che il genere richiede sempre a gran voce. Eppure si distacca molto rapidamente dai temi cari e cristallizzati, parla d’altro, scompone i cliché e li ricostruisce in maniera personale. Non vedrete neanche una pistola, in questo film. La geografia è giusta, così come il tempo (anche se siamo agli sgoccioli dell’era d’oro del West e, se ci spostiamo di qualche centinaio di chilometri, troviamo già gli speakeasy con le flappers che bevono gin da tazze di tè), ma è una storia in equilibrio tra psicologia e relazioni dei personaggi. Un po’ come, nel 2007, aveva fatto il western crepuscolare e revisionista L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford.
Al tempo stesso, però, è impossibile analizzare il nuovo film di Jane Campion, ora disponibile su Netflix, senza fare un confronto col western nella sua forma più sedimentata. Perché tutto è in funzione di ciò che il genere ha rappresentato e raccontato finora, e il divertimento sta nel rompere l’effetto deja-vu e ribaltare il mondo dei mandriani e dei pistoleri.
Phil (Benedict Cumberbatch) e George (Jesse Plemons) sono due fratelli molto diversi: il primo è ruvido, virile, a tratti inquietante, tradizionalista; il secondo, invece, è più meditabondo, mite, emotivo, equilibrato. Anche nel vestire sono molto diversi, in quanto Phil è il prototipo del vecchio cowboy, perennemente sporco e fiero, mentre George ha più l’aspetto del pasciuto industriale, curato, delicato. La discrepanza è chiara fin da subito: Phil incarna per tutto il film la vecchia idea di West (e, per estensione, di western), la figura classica del cowboy che, nel 2021, è poco più che pura mitologia. Tenta disperatamente di rivangare i vecchi tempi, quelli in cui “c’erano i veri uomini” ed è particolarmente legato a una figura mentorica chiamata Bronco Henry, la maschera della leggenda western da manuale. George al contrario non è interessato ai bei tempi andati, perché è alle prese con un problema esistenziale legato alla solitudine.
È chiaro come, anche nell’approccio ai due personaggi, il vecchio mondo e quello moderno collidano. Il personaggio di Plemons colma il suo vuoto emotivo con Rose (Kirsten Dunst), che troviamo, come copione vorrebbe, in uno dei due lavori che da sempre il genere attribuisce alle figure femminili. Rose, infatti, gestisce una sorta di locanda, ma se da una parte siamo stati abituati a vedere donne arrese e disilluse rispetto al loro fato e alle loro possibilità, così non è per lei, che spera per sé e per il gracile e introverso figlio Peter (Kodi Smit-McPhee) una vita migliore. Quando George la sposa e la porta a vivere nel ranch dove lavora anche il fratello, l’impatto è inevitabile.
Sebbene l’intreccio sia teso e intrigante, l’impostazione del film porta a chiedersi anche altro: riuscirà il vecchio western, e quindi Phil, a sopravvivere alla rivoluzione del genere narrativo? Prevarrà alla fine quel machismo, descritto qui come un culto, quasi spirituale e dalla forte carica sessuale, che ha impregnato molte delle storie di cowboy che abbiamo visto finora, o dovrà cedere il passo a nuove tematiche, nuovi modi di raccontare, nuovi archetipi di personaggio e costrutti? La risposta la trovate alla fine del film.
Se riuscisse, effettivamente, a mutare, a morire e rinascere in un certo qual modo, non sarebbe la prima volta che il western scampa alla sepoltura. Più volte ha rischiato di esaurire le storie e di non incontrare più l’interesse del pubblico, ma, in qualche modo, è sempre riuscito a cambiare quel tanto che bastava per tornare sotto i riflettori. Questo nuovo tipo di Far West, più riflessivo, psicologico, violento sotto altri punti di vista, potrebbe essere la nuova linfa per questo tipo di racconto?
Che Il potere del cane volesse essere in qualche modo una “rottura” con i canoni, si può intuire fin dalla scheda tecnica. Infatti non è un caso che sia proprio un occhio autoriale femminile quello alla regia del film, cosa molto rara. La messa in scena è ansiogena, con le orecchie dritte, in attesa di qualcosa. Certo, non mancano le vedute paesaggistiche e le lunghe cavalcate, ma è più quello che non mostra, che omette, a colpire in maniera precisa. Aggiungo una cosa che non avrei mai pensato di dire: la narrazione si sposa bene anche con l’estetica Netflix. Le immagini che la Campion crea, di grande soddisfazione visiva, non sono puramente accessorie, ma per fortuna si caricano di significato.
Ultima nota a margine: la corda. Uno strumento che diventa oggetto-potere appena nominato e del quale il destino sembra già scritto. La legge verrà ribaltata anche qua?
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