Tutti coloro che seguono l’anime di Attack on Titan – basata sul celebre manga di Hajime Isayama -, difficilmente potranno dimenticarsi dell’ottimo lavoro compiuto da Wit Studio fino al culmine della terza stagione, prima di passare il testimone a MAPPA. Ciò che però molti fan delle vicende di Eren Jaeger spesso dimenticano, è che questo prodigioso team d’animazione ha realizzato negli ultimi anni altre serie televisive, tra cui Vinland Saga, Great Pretender, Vivy: Fluorite Eye’s Song e infine l’acclamato Ranking of Kings. In ciascuno di questi esempi da me citati, Wit Studio ha confezionato stili d’animazione differenti tra loro, dimostrando nel tempo un netto miglioramento rispetto a quanto fatto con Shingeki no Kyojin.
Dalla regia alla fluidità e precisione delle animazioni, passando per disegni e colori pregni di dettagli e vivacità, ognuna delle opere confezionate da queste sapienti mani spicca per fattori tecnici che rendono l’esperienza visiva una goduria per gli occhi, al netto di racconti forse meno avvincenti. Insomma, l’esecuzione in quel di casa Wit si è evoluta, marcando stretti quei possibili difetti dettati da inesperienza, ambizione eccessiva o un budget non proprio cospicuo. Mentre Ranking of Kings si è concluso da poco entrando nel cuore degli spettatori, lo studio torna sotto i riflettori con Bubble, un nuovo film d’animazione originale disponibile su Netflix dal 28 aprile.
Ammetto di aver atteso con trepidazione l’arrivo di Bubble: dopo aver visto tutte le serie animate realizzate da Wit, rimanendo piacevolmente colpito dalla qualità tecnica di ciascuna di esse, trovo che questo film rappresenti una sorta di nuovo step evolutivo per lo studio. Negli ultimi anni questo ha continuato a crescere, riuscendo però a mantenere costanti alcune qualità (tra cui la regia) che hanno contraddistinto i suoi lavori dalla maggior parte dell’industria dell’animazione giapponese. In Bubble sono coinvolte figure interessanti e piuttosto note del settore: alla regia troviamo Tetsuro Araki (Death Note, High School of the Dead) e alla sceneggiatura Gen Urobuchi (Psycho Pass, Puella Magi Madoka Magica), e questo offre già delle ottime premesse. Tuttavia, l’insieme di grandi nomi spesso può offuscare la vista e velare entro la nebbia dell’aspettativa un racconto non proprio eccelso.
Bubble ci presenta una Tokyo ormai spettrale, sommersa dall’acqua e caduta in rovina a seguito di un evento significativo accaduto cinque anni prima delle vicende narrate. Il fenomeno della “pioggia delle bolle” non solo ha innescato un cataclisma gravitazionale nella metropoli e capitale giapponese, ma ha anche inondato ogni suo anfratto, costringendo la popolazione a fuggire. Questa pioggia, per quanto inizialmente affascinante e curiosa fosse, ha lasciato un segno indelebile, al punto da rendere off-limits una città così meravigliosa come Tokyo. Mentre l’origine e i motivi celati dietro a tale fenomeno rimangono oggetto di studio per gli scienziati di tutto il mondo, qualcuno ha pensato bene di approfittare del “deserto acquatico” per impadronirsi della città, trasformandola nel teatro di un battle royale focalizzato sulla disciplina del parkour.
I primi minuti di Bubble mi hanno catapultato nell’azione più frenetica: tra evoluzioni e acrobazie prodigiose, vediamo come la città sia ormai un enorme parco giochi acquatico per coloro che hanno l’hanno invasa, creando non solo una competizione che premia “i sopravvissuti” con enormi quantità di viveri, ma anche diverse fazioni che lottano tra loro in un comunissimo “cattura la bandiera”. La storia del film mette in primo piano Hibiki, un ragazzo alquanto taciturno con un paio di cuffie sempre pronte ad isolarlo da rumori esterni. Il giovane è membro dei Blue Blaze, un gruppo di parkouristi seguito da una dottoressa che studia tutti i fenomeni legati alla pioggia delle bolle, e in una delle sue escursioni notturne incontrerà una misteriosa ragazza, nonché colei che lo affiancherà nel ruolo di protagonista in questa storia fortemente ispirata alla fiaba della Sirenetta.
Sì, perché Bubble a conti fatti reinterpreta la fiaba ultracentenaria di Hans Christian Andersen, mettendo al centro di tutto questi giovani ragazzi che nel corso degli eventi diverranno sempre più affiatati. Ciononostante, il racconto si rivela l’anello più debole della produzione, affermandosi come poco interessante, alquanto prevedibile e dai ritmi lenti. In particolare, durante la visione del film ho avvertito l’assenza di uno svolgimento decisamente più calzante, come se il passaggio degli eventi tra l’inizio e la fine fosse solo un grande riempitivo.
Mentre apprezzo l’utilizzo del parkour come tema portante e caratteristico della pellicola (almeno, vi è un pizzico di originalità in questo), il racconto non trova uno sviluppo degno di nota rispetto a quanto avrebbe potuto offrire, considerando che dalla mente di Urobuchi si potevano estrarre idee e soluzioni narrative decisamente più avvincenti. Mi sarei aspettato soprattutto uno sviluppo migliore delle tematiche sentimentali, e avrei preferito più evoluzione e approfondimento per quel che riguarda il cataclisma che fa da sfondo alle vicende, con dei ritmi non forzatamente incessanti, ma quantomeno con un equilibrio tale da rendere il tutto decisamente più memorabile.
Ciò che mi ha lasciato più indifferente è la caratterizzazione dei personaggi principali. Hibiki come già anticipato è un ragazzo inizialmente freddo, schietto, e nonostante sia il membro più talentuoso dei Blue Blaze non mostra chissà quale attaccamento al gruppo, composto da personalità che non lo rigettano affatto. Il suo carattere insomma risulta all’inizio un po’ troppo scontato, così come la sua evoluzione non appena Uta, la coprotagonista, fa la sua apparizione. Lei, senza troppi giri di parole, è l’esatto opposto di Hibiki e non a caso reputo che sia il personaggio meglio riuscito. Evitando di dire troppo, la sua vivacità, combinata al design, le permette di distinguersi in questo film altrimenti non proprio avvincente sul fronte narrativo, diventando infine una sorta di eroina e il volto principale dell’opera. Ritengo che la sua evoluzione sia quella più tangibile nonché la più significativa, mentre tutti gli altri personaggi non ricevono uno sviluppo tale da renderli perlomeno riconoscibili. A tutto ciò si aggiunge una trama che fatica ad ingranare nei suoi 100 minuti di durata e un finale che sembra arrivare come un fulmine a ciel sereno. Storia e personaggi sono gli elementi che più mi hanno fatto storcere il naso durante la visione di Bubble, che invece rappresenta una prova tecnica davvero impressionante per lo studio d’animazione.
Trattandosi di un racconto che fa del parkour l’elemento trainante dell’azione, non è semplice realizzare scene complesse che pongano in primo piano acrobazie ed evoluzioni della disciplina, ma guardando ai trascorsi di Wit non sono mancate altre occasioni in cui il loro operato mi ha colpito in maniera positiva. Per esempio l’episodio 21 di Ranking of Kings, oppure il primo episodio della terza stagione di Attack on Titan, momenti in cui l’azione in certi momenti veniva catturata in un unico piano sequenza. Spesso e volentieri in Bubble l’azione viene riprodotta in maniera omogenea, fluida e pregna di dettagli, e ne sono rimasto impressionato. In particolar modo, le sequenze di parkour che a tratti sono piuttosto romanzate (ormai un classico nell’animazione giapponese), vengono trasmesse in maniera pulita senza effettuare troppi cambi di camera, inseguendo incessantemente i protagonisti dell’azione. Mi è stato impossibile non capire cosa accadesse su schermo durante la visione, e da spettatore che predilige l’animazione non posso che fare un applauso allo studio, che ancora una volta ha dimostrato un talento che molti film d’animazione giapponese o persino serie televisive si sognano.
L’animazione delle varie sequenze è splendida, sebbene in alcuni frangenti risulti volutamente velocizzata per restituire quel senso di agilità dei vari atleti che si affrontano nella competizione. Spesso e volentieri, i personaggi conservano un’animazione classica e bidimensionale, a cui segue un utilizzo della computer grafica che non solo agevola la fluidità della scena, ma riduce persino lo stacco tra gli elementi 2D e quelli 3D, che in questo caso costituiscono la maggior parte dello sfondo durante l’azione. Lo stacco visivo tra personaggi e ambiente è così flebile che faticosamente ho notato delle differenze, restituendomi un’omogeneità della scena che spesso nella maggior parte delle produzioni viene a mancare.
A questo dobbiamo aggiungere anche dei disegni precisi con tratti ben delineati, ma il grosso del lavoro lo fanno i colori. In particolar modo, Bubble opta per una colorazione molto vivace, con una palette che mi ha rimandato ai film di Makoto Shinkai, i quali primeggiano sotto questo punto di vista. Per maggior parte del film i colori sono piuttosto uniformi e offrono riflessi visivamente appaganti, ma in alcuni primi piani i colori assumono una rilevanza ancor maggiore, cambiando completamente stile. Chi ha visto Vivy: Fluorite Eye’s Song, riconoscerà quei colori intensi e sfumati che ritraevano il volto della protagonista, così come quell’effetto dipinto che ammorbidisce la scena, restituendo così un’immagine che assomiglia a un quadro in movimento. Questo metodo viene adottato spesso nei primi piani di Bubble, e sono stati i momenti che più ho gradito durante la visione del film. Visivamente, il nuovo lavoro di Wit Studio mostra i frutti del percorso di crescita di questa azienda fondata appena dieci anni fa, ma che nonostante la sua giovinezza ha offerto un grande contributo all’industria dell’animazione.
Per quanto i disegni e la qualità dell’immagine siano impressionanti, purtroppo lo è un po’ di meno il character design di Takeshi Obata, rinomato soprattutto per Death Note. Infatti sia Hibiki che i personaggi secondari non spiccano sullo schermo per la particolarità dei loro design, rendendoli così difficilmente memorabili anche nell’estetica.
Il tutto è accompagnato dalle splendide musiche di Hiroyuki Sawano (Attack on Titan, Kill la Kill, Mobile Suit Gundam Unicorn), compositore rinomato nell’industria dell’animazione giapponese. La colonna sonora risulta fantasiosa, un insieme di basi strumentali che denotano i momenti più importanti del film rendendo calzanti in particolar modo le scene d’azione.
Ho guardato Bubble con il doppiaggio italiano proposto da Netflix, e in una seconda visione ho voluto ascoltare quello giapponese (che preferisco nella maggior parte dei casi a quello nostrano). Nel doppiaggio in lingua originale a dare voce a Hibiki è Jun Shison, attore alla sua prima esperienza come doppiatore, mentre la splendida Uta prende vita grazie alla voce di Riria, cantante che ha anche composto l’ending del film (l’opening invece è cantata dall’artista Eve), e le cui doti canore si rivelano persino un elemento importante per lo svolgimento della storia. Il cast alterna nomi nuovi e star che hanno dato voce a personaggi molto amati della storia degli anime, come Yuki Kaji (Eren Jeager, Meliodas, Todoroki), Mamoru Miyano (Death the Kid, Ling Yao, Douma) e Marina Inoue (Rei Miyamoto, Armin Arlert). Il doppiaggio italiano invece non mi ha pienamente colpito, ma ho apprezzato l’accostamento di voci fatto per ciascun personaggio.
Un ringraziamento speciale a Netflix
Visto se devo dare un voto 5 su 10 e sono buono, a livello di animazione veramente bello, ma la storia mamma mia… 1 ora che non succede NIENTE l’ultima mezzora succede qualcosa storia scontatissima, e inoltre non si capisce da dove vengano ste bolle non viene spiegato nulla ma proprio nulla, personalmente lo sconsiglio
Come specificato nella recensione, la storia è proprio l’anello più debole della pellicola, mentre per tutto il resto se la cava benissimo. E sono a parer mio proprio le animazioni, così come la regia e tutti i tecnicismi del caso che “salvano il film”, senza di essi, non avrebbe alcunché da offrire. Questo mi dispiace, in primis perché ci ha lavorato uno staff che non ha bisogno di presentazioni, e in secondo perché il potenziale c’è ma non è stato sfruttato. Poteva offrire assolutamente di più? Senza ombra di dubbio. 🙂