La quarta stagione di Stranger Things si è fatta attendere a lungo, e non solo per gli ovvi problemi portati dalla pandemia da Covid-19. Quello che i fratelli Duffer hanno portato su Netflix questa volta è un lavoro decisamente più massiccio dei precedenti, al punto che è stato possibile dividerlo in due volumi tenendo gli abbonati occasionali più a lungo sulla piattaforma. La ragione di tanto impegno è che questa stagione ha il compito di gettare le basi per il finale della serie, che ci sarà con la quinta stagione e sul quale chiaramente le aspettative del pubblico sono altissime.
Tuttavia, la quantità non va quasi mai a braccetto con la qualità, e se la seconda e la terza stagione erano riuscite a sorprendermi con un’evoluzione delle vicende piuttosto naturale, qui saltano all’occhio alcune soluzioni posticce e idee non chiarissime su come portare avanti quanto lasciato precedentemente in sospeso. Quel che è certo però è che ormai la serie riesce a tenersi benissimo in piedi sulla sua mitologia, rendendo le citazioni agli anni ’80 sempre meno ingombranti e indispensabili.
Il finale della terza stagione aveva apportato cambiamenti non indifferenti alla serie, togliendo i poteri a Eleven e trasferendo lei e altri personaggi principali lontano dalla maledetta Hawkins, teatro delle ennesime tragedie tra cui la morte di Billy. Abbiamo quindi El assieme alla famiglia Byers in California e Hopper (prevedibilmente sopravvissuto, come rivelato già dai trailer) prigioniero in Russia. Tutti gli altri sono rimasti nella piccola cittadina dell’Indiana, e ovviamente è solo questione di tempo prima che una nuova minaccia dal Sottosopra venga a bussare alla loro porta, in questo caso preceduta da quattro rintocchi di orologio a pendolo. Fa eccezione Mike, che approfitta dello spring break per raggiungere la sua amata in California.
Al termine della visione mi sono interrogato spesso sulla reale necessità di dividere in questo modo i personaggi e declamare “We’re not in Hawkins anymore” in fase promozionale, perché sembrava un aspetto fondamentale di questo nuovo capitolo della storia, destinato a rendere il Sottosopra un problema di portata molto più ampia. Chiacchiere a parte, però, nei fatti il cuore delle vicende rimane sempre ad Hawkins e i disastri finora non escono mai realmente dai suoi confini.
In tal senso le storyline di Hopper e di Eleven, per quanto non noiose, a mente fredda mi sono parse più un allungamento del brodo che altro, dal momento che forse gli elementi importanti che contengono potevano essere introdotti in modo meno prolisso. Mi riferisco ad esempio ai flashback del laboratorio, a quanto si scopre sulla struttura in Russia verso la fine, o anche semplicemente all’approfondimento dato al rapporto tra Will e Mike. Ho avuto l’impressione che i Duffer avessero le idee chiare su questi punti non sapendo però bene dove collocarli, ritrovandosi quindi a fare dei percorsi un po’ contorti per arrivarci e perdendosi per strada alcuni personaggi come Jonathan Byers.
Gli autori indubbiamente si trovano molto più a loro agio all’interno della cara vecchia Hawkins, sia nella versione normale che in quella “capovolta”. Infatti per quanto possa essere ripetitivo vedere ancora una volta la cittadina sull’orlo della distruzione, è qui che accadono le cose più strane (cit.) e avvincenti, con scene divenute non per niente iconiche e nuovi personaggi che il pubblico si è ritrovato subito ad amare o odiare.
Stranger Things 4 ci presenta un nuovo misterioso villain, che diversamente dai precedenti ha fattezze più umane ed è chiaramente dotato di intelletto, visto che agisce alla stregua di un serial killer, selezionando accuratamente le proprie vittime sulla base di caratteristiche comuni. I ragazzi, come ormai da tradizione, gli danno un nome preso da D&D: Vecna. Chi entra nel mirino di questo essere inizia ad avere inquietanti allucinazioni perdendo sempre più il senso della realtà, fino a morire in modo atroce. Da questo punto di vista, la stagione 4 presenta una vena più marcatamente horror rispetto alle altre, con una evidente e apprezzabilissima ispirazione a Nightmare, tant’è che c’è anche un piccolo cameo di Robert Englund (lo storico interprete di Freddy Krueger).
L’ingresso in scena di Vecna dovrebbe anche servire a fare chiarezza sulla natura del Sottosopra, ma in realtà fa sorgere solo ulteriori domande, dal momento che si tratta comunque di spiegazioni aggiunte un po’ forzatamente a posteriori. In ogni caso l’aspetto del villain è convincente, ma soprattutto è lodevole che sia stato portato in vita principalmente attraverso l’uso di trucco prostetico.
A fare le spese delle morti inspiegabili che avvengono ad Hawkins è Eddie Munson, il “ragazzo strano” della scuola: ripetente, metallaro, ma specialmente leader di un club di D&D chiamato Hellfire. Il mix tra questo nome e le accuse di satanismo rivolte al noto gioco di ruolo bastano e avanzano per fare di Eddie il sospettato numero uno. A tal proposito i Duffer sono stati molto abili nell’inserire la questione del Satanic Panic, un’ondata di isteria collettiva che attraversò realmente gli Stati Uniti negli anni ’80, per cui pareva che ci fossero sette sataniche dietro ogni cosa non considerata “normale”.
Eddie si è conquistato rapidamente un posto speciale nel cuore dei fan grazie all’ottima interpretazione di Joseph Quinn, una caratterizzazione che ne evidenzia le fragilità a fronte del suo aspetto aggressivo, e alcune scene memorabili che lo vedono protagonista, come quella in cui suona Master of Puppets dei Metallica nel Sottosopra. Momenti un po’ kitsch come questo non mancano, ma sono così volutamente in pieno stile 80s che il più delle volte aggiungono valore all’intrattenimento anziché risultare fuori luogo. La musica comunque è senza dubbio un elemento di primo piano in questa stagione, nonché quello più smaccatamente citazionista dell’epoca, infatti un’altra scena importante riguarda Max e Running Up That Hill di Kate Bush.
Se dal lato narrativo questa stagione non mi ha convinto appieno, in quanto ad atmosfere e intenzioni la serie continua a rimanere fedele a sé stessa, proponendo un’avventura per ragazzi che intrattiene in maniera più che valida tra misteri, brividi, azione e risate. Sono particolarmente simpatiche le dinamiche tra Steve e Dustin, ormai un duo comico consolidato, e tra Nancy e Robin, sebbene la caratterizzazione di quest’ultima sia stata appiattita facendone un po’ una macchietta. Trovo ben riuscito anche il modo in cui viene affrontata la crescita dei personaggi: in questo senso sono particolarmente interessanti Lucas e Will, il primo per il suo tentativo di seguire la strada della popolarità e il secondo per la presa di coscienza su di sé, senza però sapere bene come gestirla.
Mentirei se dicessi che Stranger Things 4 mi ha annoiato o deluso, ma scriverne la recensione con un po’ di ritardo mi ha permesso di andare oltre l’entusiasmo a caldo, rendendomi conto di quanto la stagione sia stata imbottita di cose non propriamente utili all’economia del racconto. In 9 episodi, di cui l’ultimo da 150 minuti (durata illegale per una serie tv) gira e rigira si torna sempre nei ristretti confini di Hawkins. Mi è rimasta l’impressione che, spinti da grandi ambizioni in preparazione per il gran finale, i fratelli Duffer abbiano voluto strafare senza però essere ancora abbastanza maturi per realizzare qualcosa di così grande come l’avevano in mente. Magari mi ricrederò con la prossima stagione.
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