Kim Yong-hoon è un regista sconosciuto nel panorama cinematografico orientale e questa sua opera prima, di cui ha curato anche la sceneggiatura, potrebbe garantirgli il titolo di stella emergente del cinema sudcoreano. Sì, perché Beasts Clawing at Straws – che verrà distribuito nelle sale italiane dal 15 settembre con il titolo Nido di Vipere – pur facendosi strada in sordina, ha goduto negli ultimi due anni di un ottimo riscontro da parte di critica e pubblico.
Il film, uscito nel 2020, ha attraversato un iniziale periodo di difficoltà a causa della pandemia di COVID-19 che ne ha minato gli incassi in patria; tuttavia, la world premiere presso la 49ª edizione dell’International Film Festival di Rotterdam – dove ha vinto anche il Premio Speciale della Giuria – ha risvegliato l’interesse internazionale, motivo per cui il lungometraggio è stato poi presentato l’anno scorso in territorio nostrano al Far East Film Festival di Udine, dove ha ricevuto il White Mulberry Award, riconoscimento che arricchisce ulteriormente la sua nutrita palmarès.
L’autore ha lavorato per dieci anni in un’azienda cinematografica, e dopo essersi licenziato ha deciso di lanciarsi nella produzione di questa pellicola. Influenzato dai canoni hollywoodiani e soprattutto da Quentin Tarantino, ha deciso di dar vita al suo personalissimo Pulp Fiction: un microcosmo narrativo dalla firma inconfondibile, impreziosito da personaggi riconoscibili e carismatici. Come ogni thriller che si rispetti, la trama è molto semplice e ruota attorno all’ormai classica quanto efficace borsa piena di soldi sporchi; andiamo quindi a scoprirla, sviscerando uno dei film più interessanti dell’annata.
Adattamento del romanzo Waranimosugaru Kemonotachi di Keisuke Sone, Nido di Vipere narra le storie di una decina di individui che differiscono per estrazione sociale, carisma e background; queste vanno progressivamente ad intrecciarsi proprio a causa di un’ingente somma di denaro bramata da ognuno di loro. Il dramma ha inizio con Joong-man (un poliedrico Bae Sung-woo), un vero e proprio fallito che, per sbarcare il lunario, lavora come inserviente in una sauna dove viene puntualmente maltrattato dal datore di lavoro. “Arranca nella sua triste realtà un passo alla volta“: riesce a malapena a pagare le tasse universitarie della figlia e vive con una madre insicura e malata di Alzheimer di nome Soon-ja (Youn Yuh-jung); quando si ritrova per le mani la fatidica borsa, nascosta in un armadietto dei bagni da chissà chi, decide di appropriarsi della refurtiva per dare una svolta alla sua esistenza misera.
Purtroppo ignora che quell’oggetto cela una fitta ragnatela di vite disastrate come la sua: un doganiere indebitato (Jung Woo-sung) alle prese con uno strozzino senza scrupoli (Jeong Man-sik), un’astuta quanto algida truffatrice (la splendida Jeon Do-yeon), una giovane e ingenua escort (Shin Hyun-bin) con un marito violento e un immigrato clandestino (Jun Ga-ram). Tutti per un motivo o per un altro inseguono quei soldi, dando vita ad una caccia disperata, piena di tradimenti, colpi di scena ben piazzati, triangoli amorosi, efferati omicidi e tanto altro. “Inganna o verrai ingannato. Mordi o verrai morso. Vivi o muori“.
Tramite l’uso di una divisione in sei capitoli abbastanza concisi, lo spettatore viene mantenuto in tensione e guidato verso la risoluzione degli eventi. Eventi portati avanti, almeno inizialmente, da una serie di domande fondamentali: di chi è la borsa? Chi l’ha nascosta e perché? Una pungente ironia di fondo – che ascrive il lungometraggio al genere della commedia nera – mostra poi come i protagonisti-predatori siano disposti a tutto pur di raggiungere i loro scopi, persino impazzire. Fidarsi del prossimo è impossibile, chiunque potrebbe rivelarsi un doppiogiochista, così come chiunque potrebbe morire da un momento all’altro senza il minimo preavviso.
Beasts Clawing at Straws non fa uso di scazzottate alla John Woo per veicolare la stratificata narrazione, preferisce ottimi dialoghi che ben delineano i numerosi rapporti tra i comprimari. In poche parole: poca azione, tanta suspense. Ciò non vuol dire però che non siano previsti momenti più accesi: quando si viene ai ferri corti, il registro della pellicola si posiziona tra il comico e il tragico; una scelta peculiare che funziona a dovere, distinguendo questo prodotto da molti altri con lo stesso taglio. Il crimine non viene glorificato, bensì mostrato in tutta la sua crudezza, complice la stupidità di certi malavitosi.
È infine davvero stuzzicante notare come il denaro tormenti i personaggi a più riprese: sembra che nessuno di loro sia capace di tenersi alla larga dalla tentazione che solo i soldi sporchi possono generare. La sceneggiatura minuziosa scioglie coerentemente i nodi della storia, grazie anche ad un finale a specchio che ricorda Parasite, uno dei capolavori di Bong Joon-ho.
Uno dei fiori all’occhiello della pellicola è certamente il suo cast: tutti gli interpreti sono estremamente convincenti e magnetici. Tra le star più blasonate c’è Jeon Do-yeon – premiata al Festival di Cannes nel 2007 come Miglior attrice – che qui porta in scena una donna camaleontica e sfuggente; abbiamo poi la sommessa ma energica Youn Yuh-jung – Premio Oscar nel 2021 come Miglior attrice non protagonista per Minari – o l’altrettanto famoso e talentuoso Jung Woo-sung (Illang – Uomini e lupi) che, stando alle parole dell’attore stesso, veste i panni del personaggio più passivo e indeciso che abbia interpretato nella sua carriera. “Non è forte ma finge di esserlo, eppure è molto umano”.
Altro elemento di pregio è rappresentato dalla tecnica a servizio di protagonisti e parole. L’estetica spiccatamente pulp si deve principalmente al direttore della fotografia Kim Tae-sung che lavora con colori accesi e contrasti netti; felice di constatare come questi richiamino The Gangster, The Cop, The Devil, perla dello stesso genere. La regia di Kim Yong-hoon gode poi di movimenti molto misurati che ben sorreggono la costruzione drammatica. Ottime le inquadrature fisse, così come le morbide carrellate e le panoramiche.
L’editing, curato dalla mano sapiente di Han Mee-yeon (Snowpiercer, Okja, Parasite), fonde montaggio alternato ed ellittico. Una scelta atta a nascondere o a svelare all’occorrenza informazioni cruciali circa le vicende narrate che prima o poi sono destinate a convergere; non mancano all’appello precisi salti temporali, perfetti per approfondire, sintetizzare o frammentare lo scorrere degli accadimenti dal ritmo indiavolato. I pezzi del puzzle si ricollegano man mano e nulla viene lasciato al caso; non sorprende quindi che il buon Han abbia vinto ben due premi per il Miglior montaggio, sia alla 7ª edizione dei Korean Film Producers Association Awards, sia alla 41ª dei Blue Dragon Film Awards.
Coronano il tutto le musiche di Nene Kang, centellinate ma sempre adatte ad ogni situazione, variegate e ricche di sonorità eterogenee. In conclusione, Nido di Vipere è un esordio dove tutto funziona come un orologio, un nuovo lungometraggio da inserire tra le sorprese più gradite del periodo post-Parasite. Un’opera che dimostra ancora una volta come l’inconfondibile stile sudcoreano possa essere d’esempio per i cineasti contemporanei di tutto il mondo, persino quando si affrontano racconti dagli stilemi consolidati – come i thriller – pensando erroneamente che non abbiano più niente da dire.
Un ringraziamento speciale a Echo e Officine Ubu
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