Nell’ultimo periodo ho avuto il piacere di notare come il franchise di Detective Conan sia tornato sotto i riflettori a livello italiano e internazionale. Nel primo caso, la casa editrice Star Comics ha rimpinguato il suo catalogo con una nuova edizione del manga principale, lo spinoff Wild Police Story e Zero’s Tea Time, opera dal successo modesto ma che ha recentemente ricevuto un adattamento anime, distribuito in Occidente da Netflix.
La serie consta di 6 episodi da 15 minuti l’uno e ripercorre fedelmente gli eventi narrati nella sua controparte cartacea: il protagonista è Rei Furuya, anche conosciuto come Toru Amuro e Bourbon. Investigatore per l’Ufficio di sicurezza dell’Agenzia nazionale di polizia che lavora sotto copertura sfruttando, appunto, i suoi vari pseudonimi per svelare le misteriose macchinazioni degli Uomini in Nero, gli antagonisti storici del “detective in miniatura”.
Anche in questo caso si tratta di un prodotto spiccatamente slice of life, composto da brevi episodi antologici e autoconclusivi che mancano di un vero e proprio pretesto narrativo. Quest’ultima caratteristica è purtroppo il problema cardine che affligge questa iterazione televisiva e il perché è presto detto.
Nel manga, illustrato da Takahiro Arai e supervisionato da Gosho Aoyama, Rei – che nella vita di tutti i giorni si fa chiamare Toru – segue una fitta routine: mentre lavora come cameriere al caffè Poirot, si trova ad interagire con vari personaggi, tra cui la collega Azusa o il fedele Yuya, agente di Pubblica Sicurezza della Questura di Tokyo. Le suddette interazioni danno sempre luogo a problemi da risolvere, divertenti siparietti o fugaci sequenze action dove il protagonista fronteggia sprovveduti criminali.
Le situazioni trasposte nell’anime sono, tutto sommato, le stesse: si notano qui e là leggere e ininfluenti variazioni che aggiungono o tagliano piccole scene. Altre sequenze, invece, sono state animate in maniera identica. Purtroppo, come sottolineato in apertura, il difetto più grave di questa versione di Zero’s Tea Time è proprio la sua natura lineare che sfocia in una piattezza quasi noiosa.
Se leggere le pagine del fumetto può risultare rilassante, piacevole e per certi versi stuzzicante, seguire vicissitudini tali e quali che si risolvono in appena un quarto d’ora non dà lo stesso effetto. Alla fine dei vari episodi – che volano davanti agli occhi – ci si rende conto di come ognuno di essi non racconti nulla, al netto di un paio di appendici introspettive per il protagonista. Detto in parole povere: questo anime non ha una trama.
I fan più accaniti di Detective Conan potrebbero giustamente obiettare affermando che la mancanza di una struttura narrativa – vista la natura slice of life – non sia una sbavatura, e avrebbero ragione. Ritengo tuttavia inutile l’aver adattato alla lettera uno spinoff che già di per sé non ha grosse pretese se non approfondire un importante personaggio secondario – che nell’opera principale gode di uno spazio crescente – costituendo così un utile punto di partenza per i neofiti e una buona lettura aggiuntiva per gli appassionati.
A conti fatti, i nodi narrativi fondamentali vengono già gestiti da Gosho Aoyama nel suo manga; non possono e non devono venir arricchiti in un prodotto secondario che potrebbe frammentare eccessivamente la già complessa storyline. Oltretutto, il manga firmato da Takahiro Arai è nato con l’intento di colmare le pause di cui Aoyama e collaboratori hanno bisogno di tanto in tanto per portare avanti il loro lavoro, quindi il mio dubbio permane: che senso ha produrre un anime da un materiale di partenza così modesto?
Il comparto tecnico, sebbene sia di buona fattura, non esalta chissà quanto questa serie: la vivace regia animata curata dallo studio TMS Entertainment – attualmente a capo dell’anime di Detective Conan – rende più dinamici certi frangenti, così come la computer grafica targata Imagica DigitalScape e Imageworks Studio. Le musiche del duo Tomisiro aggiungono poi quella nota di relax che ben si adatta alle puntate, senza dimenticare occasionali composizioni più energiche. Ottime la opening Shooting Star di RAKURA e la ending Find the Truth di Rainy.
In definitiva, l’adattamento anime di Zero’s Tea Time è un prodotto con cui passare una rilassante – forse troppo – ora e mezza: una serie modesta, ma fine a sé stessa, vuota. Tutto a causa di un manga di partenza che svolge già egregiamente il suo compito, senza il bisogno di espansioni superflue. Il mio personalissimo consiglio, insomma, è di seguire il buon lavoro di Takahiro Arai se proprio ci si vuole addentrare nel sottobosco del franchise di Conan, evitando certe trasposizioni animate (fermo restando che ognuno è libero di godere delle avventure del piccolo investigatore come meglio crede, sulla carta o sullo schermo).
Per chiudere questa recensione con una nota positiva, evidenzio come l’arrivo su Netflix di questo spinoff abbia alimentato le speranze dei fan – italiani e non – che vorrebbero vedere approdare sulla piattaforma l’anime originale nella sua interezza. Potrebbe rivelarsi un’impresa titanica, date le ormai centinaia di episodi, ma sognare è sempre bello. Quel che è certo è che un secondo spinoff sarà presto disponibile in streaming, ovvero Detective Conan: The Culprit Hanzawa, versione animata del manga omonimo scritto e illustrato da Mayuko Kanba (ancora inedito in Italia). Incrociamo le dita e confidiamo in un’opera ben più ricca, sebbene i presupposti non siano rosei.
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