Prima inquadratura: un dipinto che racchiude un uomo di spalle, vestito elegante, con i capelli neri, che si osserva allo specchio. Lo specchio però non riflette il suo sguardo, mostrandoci il volto dell’uomo, anzi: ci restituisce la sua figura di spalle, di modo che tutto ciò che riusciamo a vedere sia sempre solo la sua schiena, per due volte. Un’immagine ripetuta identica: lo specchio non ci dà ulteriori informazioni, non ci aiuta.
Non è forse guardandosi allo specchio che si dovrebbe riuscire ad avere un’idea un po’ più chiara della propria persona? Un volto che ci restituisce lo sguardo, che ci permetta di riconoscerci anche solo nel nostro viso, nella prevedibilità dei suoi movimenti, in quei tratti che ci sono così familiari; un volto che, ci piaccia o no, ci restituisce una certezza: io sono così, lo sono sempre stato, almeno dall’esterno ho chiaro chi sono.
Aru Otoko (Un Uomo), uno dei due film giapponesi presentato quest’anno alla Mostra del Cinema di Venezia, decostruisce fin dalla prima immagine – e in realtà fin dal titolo – l’essere in grado di autodefinirsi con certezza, mettendo insieme un gioco d’identità scambiate e fuorvianti che non solo portano lo spettatore nel cuore di un’indagine per riuscire a capire chi mente e chi nasconde qualcosa, ma alimentano anche una riflessione che interessa la narrativa da anni (per il cinema) e da secoli (per la letteratura): ci si può davvero conoscere fino in fondo? Cos’è l’identità, un concetto generalmente applicabile a chiunque o una caratteristica che ci assegniamo noi stessi/ci assegnano gli altri, il nostro contesto, la nostra storia? Siamo davvero definibili – e giudicabili – dalla nostra vita e dal nostro comportamento?
Aru Otoko mette in scena l’incontro fra un uomo e una donna, Daisuke e Rie, che si vedono per le prime volte nella cartoleria di lei: lui va là per comprare i materiali necessari ai suoi disegni, ed è proprio grazie a questi che i due iniziano a conversare e, nei giorni successivi, a conoscersi. La loro storia d’amore nasce delicatamente, senza bisogno di parole in eccesso, all’interno del contesto frenetico che è la famiglia della donna, composta dal figlioletto energico che si aggira fra gli scaffali del negozio e dalla madre anziana che ancora non riesce a superare la morte del marito avvenuta da poco. Nonostante un figlio e un divorzio allo spalle, Rie riesce ad aprirsi subito a Daisuke, trovando in lui un’anima affine ed uno spirito dolce e gentile: i due in poco tempo si sposano e formano una famiglia.
La trama prende una piega inaspettata (se ci si aspettava uno slice of life) o inizia ad entrare nel vivo (se si sapeva già che si sarebbe trattato di una sorta di mystery) quando Daisuke muore sul posto di lavoro. Raccogliendo i documenti per il funerale e invitando i parenti del defunto, Rei scopre che in realtà l’uomo che ha sposato non è Daisuke: il nome, insieme alla famiglia ed il passato ad esso legati, appartengono ad un’altra persona. La donna allora ingaggia il suo avvocato Kido, lo stesso che l’ha aiutata con le pratiche del divorzio, per andare fino in fondo a questo mistero e scoprire la verità.
Se Daisuke ha mentito sulla sua identità è perché ne nascondeva una più oscura, magari con un passato da omicida o con qualcosa di cui vergognarsi. Kido, quest’avvocato così integerrimo con una famiglia perfetta, sembra pensarla così. Dall’alto della sua situazione, morale e sociale, ha delle idee ben chiare su chi mente e chi fugge, e sono tutt’altro che positive. Questa indagine, però, lo condurrà lungo una serie di scoperte e di incontri che lo porteranno a dubitare fino a fargli venire il dubbio più grande: ma tutte queste certezze che io ho, sono vere? Io sono davvero l’uomo (attenzione all’articolo: nel titolo c’è il generico “un” per un motivo) che pensavo di essere?
Così come il regista Kei Ishikawa ci inganna fin dall’inizio, portandoci a credere che Daisuke possa essere il protagonista della storia quando invece è Kido (che appare a mezz’ora inoltrata di film), anche i personaggi che incontriamo ci prendono in contropiede: da come si presentano e parlano, dal passato che hanno, da come si pongono, siamo convinti di sapere quale sarà il loro ruolo all’interno della storia, in quale categoria possiamo riuscire ad inquadrarli (è la vittima della situazione? Sta intralciando l’indagine? La sta aiutando? È innocuo?) ma la loro identità si mostra complessa, sfaccettata e non prevedibile: perché ogni uomo, alla fine, può scegliere quella che vuole e comportarsi di conseguenza senza che questa sia meno vera o reale dell’identità già assegnata dal proprio contesto familiare o sociale, dal proprio passato, dalle idee fino a quel momento professate.
Il dubbio, dunque è se l’identità sia definibile da qualcosa o se, semplicemente, si possa scegliere. “Un uomo” è un uomo qualunque, un uomo generico, può indicare tutti o può indicare nessuno, essendo un’entità astratta. Anche guardarci riflessi allo specchio può non fornirci risposte giuste: ce lo illustra già Oscar Wilde col suo celebre Il ritratto di Dorian Gray, in cui paradossalmente è un quadro a rivelare il vero aspetto del protagonista, e non il suo volto; lo portano sul palcoscenico gli innumerevoli personaggi di commedie latine, greche e anche Shakespeariane coinvolte nell’inganno del doppio; lo insegna ai bambini Il Principe e il Povero, lo comprova Il fu Mattia Pascal e lo analizzano tutti i film e i libri con al centro il tema di riscatto grazie all’inizio di una nuova vita (fra i quali potrei citare, per coerenza di tema, un altro film che ha esordito alla Mostra di Venezia che è anche l’ultimo del regista Paul Schrader: Master Gardener).
Aru Otoko, tratto tra l’altro dall’omonimo romanzo giapponese del 2018 di Keiichiro Hirano, è un’aggiunta gradevole a queste fila: il tema dell’identità viene affrontato in modo non superficiale grazie a un’indagine che non porta dove ci si aspetta e dove si può toccare con mano, grazie alla propria esperienza di spettatore coinvolto dagli eventi, la sensazione sgradevole e imprevista di trovare le proprie aspettative – su una persona, su un evento – disattese. Il dubbio s’insinua nel protagonista a tal punto da fargli iniziare a dubitare anche delle persone che ha attorno, di sé stesso e del proprio riflesso (ricorda qualcosa?).
Un’indagine iniziata come semplice incarico lavorativo che diventa un’indagine esistenziale: come posso definire chi sono io? Quali sono i parametri? Sono affidabili? Non posso forse essere chiunque e nessuno, a seconda di cosa voglio? Un film delicato, sorprendente, che s’insinua con ritmo pacato (a volte forse anche troppo monotono) nella mente, portando altro oltre che eventi narrativi. Personalmente mi sarebbe piaciuto un approccio di crisi identitaria anche per i personaggi femminili – che purtroppo sembrano essere gli unici prevedibili all’interno della narrazione – ma è un appunto marginale, perché l’intento comunicativo riesce a prescindere.
Commenta per primo
Questo sito è protetto da reCAPTCHA e si applicano le Norme sulla Privacy e i Termini di Servizio di Google.