Pearl è stato presentato quest’anno a Venezia come prequel di X – A Sexy Horror Story: due film con lo stesso comparto tecnico (da menzionare l’eccezionale Mia Goth, protagonista di entrambi) usciti a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, uno in estate e l’altro a settembre.
I due film insieme sanciscono il ritorno di Ti West come regista cinematografico, considerando che dopo il western del 2016 Nella valle della violenza sembrava essersi dedicato prettamente alle serie televisive (ha diretto, fra gli altri, un episodio di Tales from the loop). Il suo è un ritorno non solo al cinema, ma anche al genere che ha caratterizzato la sua carriera fin dagli esordi: l’horror.
Pearl descrive infatti la parabola discendente che l’omonima protagonista compie per trasformarsi da una giovane contadina del Texas degli anni ’10 all’antagonista anziana e turbata che vediamo in X, ambientato una settantina d’anni dopo. Questa ragazza di vent’anni ci viene presentata in una fattoria, con i capelli legati in modo infantile, la “s” moscia e dei completini colorati: un ritratto d’innocenza che rimanda per estetica e contesto geografico a Dorothy de Il Mago di Oz, ma che contrasta con la forte ambizione e la spietatezza che fin dai primi minuti di film la caratterizzano.
Questa dualità sarà il cardine principale del film e aiuterà ad accentuare il carattere grottesco e paradossale dell’intera vicenda. La figura della giovane ambiziosa, con un fattoria isolata e una famiglia rigida a fare da sfondo scomodo ai suoi sogni, questa volta non sarà destinata ad un viaggio in un mondo meraviglioso con maghi e scarpette rosse, anzi, l’unico rosso di cui si tingerà la vicenda sarà quello della frustrazione, della rabbia cieca e del sangue.
Il film si apre con Pearl (Mia Goth) che ha appena finito di esibirsi in un numero di ballo davanti agli animali della sua fattoria in Texas: è l’unica figlia di una famiglia di contadini, la madre (Tandi Wright) è una donna dura e severa di origini tedesche e il padre (Matthew Sunderland) è rimasto paralizzato in seguito a una malattia. L’unica possibilità di sfuggire a questo contesto senza futuro sfuma subito quando il ragazzo che ha appena sposato è costretto a partire per combattere nella Prima Guerra Mondiale, e quindi a Pearl non resta che una cosa per scappare: aggrapparsi al suo sogno di diventare una stella del cinema. Mentre cerca le opportunità per realizzarlo, Pearl si ritroverà a fare i conti con la società inevitabilmente retrograda del periodo, che mal si adatta alle sue ambizioni e che la vuole unicamente a casa ad attendere che il marito torni dalla guerra, mentre accudisce amorevolmente suo padre e segue gli insegnamenti rigidi della madre per tenere in piedi la casa e la fattoria.
La frustrazione di Pearl per il contesto in cui è imprigionata si mostra subito in una delle prime scene del film, che condensa la dualità di cui parlavo all’inizio e il mix riuscito di più generi. Subito dopo aver finito la sua esibizione di fronte agli animali della fattoria, Pearl si mostra trafelata e sognante, con la mente ancora rivolta verso il suo futuro di fama e realizzazione personale. Un’oca la riporta alla realtà starnazzando e lei, cambiando radicalmente espressione, impugna la forca in un’inquadratura geniale che ricollega gli spuntoni metallici agli artigli di Freddie Krueger e la infilza, mostrando una totale assenza di empatia e un profondo malessere che non riesce a manifestare altrimenti.
È così che la nostra Dorothy del Texas si tinge le scarpette di rosso e sogna di rifugiarsi in un altro mondo, arrivando pian piano a scollegarsi dalla realtà e a spezzare ogni possibile legame con le persone che si muovono attorno a lei: non le capisce, non riesce a farsi capire, odia il contesto in cui si trova ma non riesce a comprendere neanche quello e ci si ritrova impigliata. Questo senso di soffocamento cerca di trovare un’espiazione anche attraverso il sesso, che idealmente dovrebbe donare un senso di libertà selvaggia, e da qua torniamo alla combo che ha suscitato curiosità già dall’uscita di X – A Sexy Horror Story (dal titolo esemplificativo): horror ed erotismo. Se lì però la riflessione si concentrava sulle controversie dell’industria del porno negli anni ’80, in Pearl il sesso è materia perfetta per una critica al bigottismo del periodo, in un’America anni ’10 in cui le uniche prospettive per una donna erano il matrimonio e la cura della famiglia.
In questo e tutto il resto Pearl è una protagonista che sembra a tutti gli effetti d’avanguardia: ambiziosa, rancorosa verso la propria famiglia soffocante, desiderosa di libertà sessuale, disposta a fare quello che occorre per ottenere ciò che vuole. I tempi e il luogo però sono del tutto sbagliati, e quelle che dovrebbero essere caratteristiche positive diventano tratti recriminatori: Pearl si ritrova tagliata fuori dalla sua famiglia, dalla sua città, dai suoi coetanei, e un sano rifugiarsi nei sogni rischia di diventare un’ossessione morbosa perché rappresenta l’unico tentativo di fuga che ha da tutto questo.
Ti West l’horror sembra conoscerlo talmente bene da riuscire a far convivere citazioni cult del genere a momenti comici, sdrammatizzazioni continue della situazione e scene erotiche contestualizzate alla perfezione, senza perdere mai quel filo di tensione e suspense che tiene lo spettatore teso fra una risata e una riflessione. Un grande aiuto glielo dà sicuramente Mia Goth (qui accreditata anche come co-sceneggiatrice insieme allo stesso West) in un’interpretazione ambigua curata in ogni minimo movimento, da quelli più impercettibili come lo spostamento sdegnoso di un angolo della bocca a quelli più eclatanti come occhi sgranati da uno stupore ingenuo o la bocca dilatata in un sorriso triste e folle assieme.
Un monologo finale di quasi dieci minuti, tutto in primissimo piano, è la dimostrazione che ci si trova davanti ad una delle migliori prove attoriali femminili dell’anno. Riuscire a far mantenere l’attenzione su di sé tutto quel tempo è dato per scontato a teatro, ma al cinema è estremamente difficile dare peso ad ogni parola ed espressione senza risultare caricaturale o monotematica, e lei ci riesce magistralmente: non le si può togliere lo sguardo di dosso e la sua voce crea una miriade di altre immagini che sullo schermo non si vedono.
Quello che rischiava di essere un groviglio improbabile di generi (commedia, erotico, thriller e horror) si rivela invece una corda perfettamente intrecciata, dove ogni colore si armonizza con l’altro e tutti proseguono insieme e coerentemente dall’inizio alla fine. Leggerezza e tensione vanno di pari passo grazie ad una sceneggiatura sfaccettata e mai esplicita, un casting perfetto e una coincidenza esatta fra intenti iniziali e realizzazione finale. Se amate gli horror, le protagoniste femminili inaspettate e una resa di giustizia a generi bistrattati come lo slasher e l’erotico, questo è il film che fa per voi (sperando che presto o tardi riuscirà ad arrivare ufficialmente nelle sale italiane).
Commenta per primo
Questo sito è protetto da reCAPTCHA e si applicano le Norme sulla Privacy e i Termini di Servizio di Google.