Sanctuary, un gioco perverso tra realtà e finzione

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La mia 17ª edizione della Festa del Cinema di Roma si apre col botto: un giovane regista statunitense di nome Zachary Wigon partecipa alla sezione Progressive Cinema con Sanctuary, film che – sebbene poco conosciuto – spicca per la presenza della prolifica e talentuosa Margaret Qualley (C’era una volta a… Hollywood, Death Stranding) come protagonista, affiancata da Christopher Abbott (First Man). I due sono gli unici personaggi in questo lungometraggio che fonde dramma e commedia – passando per il romantic thriller – e che si ambienta totalmente in una piccola, lussuosa stanza d’albergo.

sanctuary film hotel

La trama è semplicissima: Rebecca (Margaret Qualley) è una prostituta specializzata in tecniche sadomaso nel ruolo di dominatrice. Hal (Christopher Abbott) è il suo cliente fisso: il suo patrimonio – dopo aver ereditato il gruppo alberghiero del padre che conta ben 112 hotel – ammonta a milioni di dollari di fatturato. Il loro rapporto è molto intimo, così stretto che lei – una donna glaciale – conosce gran parte dei segreti di lui; quest’ultimo è un imprenditore senza spina dorsale, perfetto per essere sottomesso. Ciò viene palesato dalla splendida sequenza iniziale che inganna lo spettatore unendo realtà e finzione teatrale e stabilisce il mood della pellicola: Hal, infatti, è solito scrivere copioni che Rebecca deve rispettare per filo e per segno durante il loro gioco erotico; un elemento che mi ha ricordato Holy Motors di Leos Carax. Lei è dunque un’ammaliante attrice in tutto e per tutto: un giocattolo sessuale pagato profumatamente (e per questo sostituibile nella mente dell’uomo).

Una notte qualcosa tra i due si rompe: Hal, dovendo ricoprire la carica di nuovo CEO della sua azienda, desidera ripulire la sua immagine. Non può accettare di convivere con una donna che lo conosce come le sue tasche e soprattutto vuole evitare che le loro pratiche osé vengano a galla tra colleghi, amici e familiari. Posta davanti al licenziamento imminente, Rebecca non crolla, anzi passa subito al contrattacco: in nome del loro legame perverso e della meritocrazia architetta una serie di ricatti e menzogne, arrivando a chiedere ben 4 milioni di dollari di risarcimento. Per Hal l’offerta è inaccettabile, specialmente perché la escort minaccia di raccontare ogni cosa: inizia così una serata infuocata in cui la coppia si scontra in un tira e molla furibondo e imprevedibile. Chi avrà la meglio? Chi dei due ha il vero dominio in questo sadico gioco di ruolo in bilico tra verità e fantasia?

sanctuary margaret qualley
Dinanzi a questo sguardo come è possibile dire di no?

Prevedibilmente ciò che salta subito all’occhio in Sanctuary è la performance encomiabile di Margaret Qualley che, con il suo atteggiamento malizioso, provocante e diabolico, buca lo schermo e conquista immediatamente lo spettatore. È una protagonista femminile di spicco che evolve la sua psicologia coerentemente con l’avanzare della storia; è ben costruita e dotata di una personalità sfaccettata, forte e credibile. Lo stesso si può dire della sua controparte maschile: un personaggio caratterizzato a dovere, un inetto che vorrebbe avere il coltello dalla parte del manico ma che, in fin dei conti, risulta solo un patetico ometto che si atteggia da potente.

In questa struttura bipartita che ricorda molto da vicino i drammi della Grecia classica e in particolare l’Elena di Euripide – dove tutte le donne sono granitiche e tutti gli uomini dei poveri idioti – è interessante notare come Rebecca e Hal aspirano ad essere ciò che in realtà non sono, in una peculiare dinamica che si articola tra interiorità ed esteriorità. In parole semplici, la prostituta al di fuori dell’hotel è una sconosciuta, timida e insicura che però si trasforma in un diavolo sensuale tra le quattro mura della stanza di Hal. Quest’ultimo invece, nella sua suite che diventa un santuario minimale e dai colori pastello, vuole farsi credere audace e intraprendente agli occhi dei suoi cari, quando in realtà non è altro che uno smidollato. Che sia questa una stilettata all’industria cinematografica hollywoodiana e produttiva piena di magnati con scheletri nell’armadio e divi al loro cospetto? Non proprio.

Questa è una sovralettura possibile e gettonata, ma non è l’unica voluta dal regista. Confrontandomi di persona con Zachary Wigon ho appreso che il film non vuole essere per forza metaforico, bensì comunicare esclusivamente quello che mette in scena. Il cineasta non ha voluto costruire una figura retorica, ma una pellicola alla quale attenersi per poi lasciare liberi gli spettatori di interpretare. Non è un caso che grandi topic quali sesso, potere, industria e finanza diano adito a numerose e inevitabili speculazioni, dal momento che ci troviamo davanti ad un lungometraggio onesto e schietto. “Una volta che il film è finito, le opinioni del regista e le intenzioni di chi ci ha lavorato perdono di senso. Sono le persone che lo guardano a decidere il suo significato“.

sanctuary christopher abbott

Viceversa, la sceneggiatura è l’ambito dove questo piccolo racconto sperimenta di più: Micah Bloomberg è attento alle parole che inserisce nei dialoghi, essendo la scrittura la colonna portante di tutto insieme alla regia. Durante la visione ci si chiede spesso se il rapporto malato tra Hal e Rebecca sia solo uno svago o corrisponda effettivamente alla realtà. Sanctuary, come sottolineato in apertura, si muove agilmente tra i generi. Una scelta che l’autore, per sua stessa ammissione, eredita da Memories of Murder di Bong Joon-ho; una pratica recente nelle produzioni ad alto budget, della quale Wigon vuole farsi portabandiera. In definitiva, ingannare sempre le aspettative del pubblico – sfruttando anche gli stilemi del thriller psicologico – è lo stratagemma prediletto di questa narrazione.

A proposito di regia, essa è un altro valore aggiunto a tutto l’impianto scenico. Dietro la macchina da presa, Zachary Wigon sceglie di seguire un duplice approccio. Innanzitutto si dimostra molto posato così da valorizzare gli attori e la loro espressività; ciò avviene grazie a eccellenti primi e primissimi piani, inquadrature strette e soffocanti sui corpi e magnetici sguardi in macchina (glorificati ancora di più da una particolare scena di sesso, giocata esclusivamente sugli occhi). Ciò avvicina lo stile complessivo al buon vecchio Yorgos Lanthimos, ponendo un accento molto netto sui concetti di possesso e sottomissione.

Allo stesso tempo, nelle sequenze più concitate, la telecamera si muove rapidamente sugli assi – verticalmente e orizzontalmente – per restituire un senso di vertigine e di paradossale claustrofobia, coadiuvato anche da inquadrature inusuali. La macchina da presa segue il gioco focoso dei protagonisti e si diletta a sua volta, adattandosi alle numerose e folli situazioni. In questo senso, Sanctuary deve molto ad Audition di Takashi Miike, ma mette subito in chiaro che lo scontro tra uomo e donna non è fisico e sanguinolento, bensì mentale. Difatti tutte le scene esplicite vengono elegantemente celate allo sguardo, per lasciarle all’immaginazione. Una trovata che, ancora una volta, prende in giro le previsioni dello spettatore in pieno stile hitchcockiano (alla Psyco per intenderci).

sanctuary zachary wigon

In ultimo, la messa in scena viene sorretta degnamente dalla direzione della fotografia dell’italiana Ludovica Isidori che – in contrasto con la desaturazione estetica dei prodotti indie odierni – sceglie ottime palette cromatiche accese e saturate e privilegia il colore rosso per restituire il costante senso di allerta che provano i due protagonisti (senza rinunciare ad un pizzico di morbidezza messa in risalto da occasionali immagini fumose). A ciò si aggiunge la colonna sonora minimale di Ariel Marx, che adoperando un repertorio eclettico – tra musica classica, jazz e ambient – rimarca davvero bene ogni azione di Rebecca e Hal, optando anche per eloquenti silenzi.

Sanctuary sarà distribuito in Italia prossimamente da I Wonder Pictures. Se state cercando un thriller solido e smaliziato, questo è il film che fa per voi. Si spera che le eccellenti prove attoriali e il brillante lavoro di Zachary Wigon – completato in soli 18 giorni – possano stuzzicare il pubblico medio poco avvezzo a lungometraggi del genere. Una cosa è certa: durante i titoli di coda è impossibile non pensare “Margaret Qualley fai di me ciò che vuoi”.

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Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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