Rapiniamo il Duce, il Bastardi senza gloria del discount

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Attorno al 2019 il cinema italiano ha dimostrato un rinnovato amore per i gangster movie: proprio in quello specifico anno sono arrivati nelle sale il pessimo Non ci resta che il crimine di Massimiliano Bruno, il più riuscito Gli uomini d’oro di Vincenzo Alfieri e il divisivo Lo spietato di Renato De Maria. Quest’ultimo regista è tornato a far parlare di sé con un film affine che cavalca quest’onda di popolarità; in occasione della Festa del cinema di Roma ha infatti presentato Rapiniamo il Duce, heist movie targato Netflix e accolto da un bagno di folla al festival. Il cast d’eccezione e il contesto storico accattivante bastano a sorreggere un lungometraggio così ambizioso? Nì, scopriamo il motivo.

rapiniamo il duce matilda de angelis

La pellicola si basa su un fatto storico reale: quando Mussolini fu catturato agli sgoccioli della Seconda guerra mondiale, nessuno riuscì mai a recuperare il suo tesoro, meglio noto come “l’oro di Dongo“. Qui la storia si mischia con la leggenda, difatti si dice che l’ambito bottino fosse passato da Milano tra il 15 e il 25 aprile 1945, ma ad oggi non si sa che fine abbia fatto. Partendo da questa premessa, il regista e i suoi colleghi si sono divertiti a immaginare una rapina condotta da una banda di ladri male assortita, il cui capo altri non è che Isola (Pietro Castellitto), un criminale squattrinato che domina il mercato nero milanese, mosso da un’ideologia incrollabile e desideroso di dare una svolta alla sua vita. Ad accompagnarlo il cecchino Marcello (Tommaso Ragno) e il crittoanalista Amedeo (Luigi Fedele).

Il motivo della forte aspirazione di Isola – antifascismo a parte – è presto detto: è fidanzato con la cantante Yvonne (Matilda De Angelis) e vorrebbe riscattarsi insieme a lei così da costruirsi un futuro. La ragazza, agendo sotto copertura, è l’amante del gerarca fascista Achille Borsalino (Filippo Timi), soldato senza scrupoli disposto a tutto per tenersela stretta. Come se non bastasse, l’uomo è sposato con l’attrice Nora Cavalieri (Isabella Ferrari); prevedibilmente, i rapporti con lei non sono affatto rosei. In questa situazione bollente giunge una notizia inattesa: Isola e colleghi, intercettando un messaggio cifrato emesso dalla prefettura, scoprono che Mussolini ha intenzione di scappare in Svizzera con il già citato oro. Dunque, senza pensarci due volte, i nostri furfanti decidono di tentare l’impossibile: derubare il Duce.

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L’ispirazione da cui nasce il personaggio di Castellitto proviene da Italian Gangsters, film documentario del 2015, girato sempre da Renato De Maria.

Sfortunatamente la refurtiva è custodita nella cosiddetta Zona Nera, un quartiere fortificato, altamente sorvegliato e apparentemente inespugnabile. I protagonisti hanno solo una settimana di tempo per mettere a segno il colpo e ingaggiano così dei preziosi compagni di squadra: l’autista ed ex pilota della Mille Miglia Giovanni Fabbri (Maccio Capatonda), un bombarolo anarchico chiamato Molotov (Alberto Astorri) e una ladra senza nome (Coco Rebecca Edogamhe). Rapiniamo il Duce mette quindi in scena le gesta di questi eroi improvvisati destreggiandosi tra vari registri: la commedia nera, il dramma romantico e persino il cinefumetto.

A questo proposito, la mano scrupolosa di Netflix si sente tutta – anche troppo – dal momento che rende il lungometraggio un prodotto spiccatamente pop, sfruttando soprattutto la fotografia variopinta di Gian Filippo Corticelli (decisamente votata all’ormai stantio teal & orange) e le musiche originali di David Holmes (Ocean’s Eleven) che di tanto in tanto lasciano spazio a brani su licenza come Amandoti dei CCCP e Se bruciasse la città di Massimo Ranieri. Impossibile non citare anche degli occasionali inserti animati e l’editing dinamico di Clelio Benevento (Mondocane), che fonde un lineare montaggio narrativo a sequenze in montaggio alternato per chiarire alcune circostanze di trama tramite sporadiche digressioni. Alla fine della fiera, tuttavia, i risvolti sono tutti prevedibili e per nulla sorprendenti.

L’apporto tutto sommato positivo del colosso dello streaming – principalmente monetario – si vede anche nella cura riposta nei costumi e nelle scenografie molto ben fatti. Per i primi è stato consultato Remo Buosi, già military advisor per Diabolik; i set invece sono stati supervisionati dalla production designer Giada Calabria (Non essere cattivo). Purtroppo il coinvolgimento di Netflix ha portato con sé anche tanti difetti, alcuni dei quali ascrivibili al loro classico modus operandi che affossa irrimediabilmente la pellicola.

rapiniamo il duce renato de maria
La squadra al completo.

Innanzitutto questo heist movie – benché scorra bene grazie ai suoi toni leggeri e ad una regia di mestiere – è indubbiamente fin troppo “americanizzato”, un problema di cui soffre anche Freaks Out. In Rapiniamo il Duce manca quasi del tutto l’identità italiana e la presenza dei fascisti – assenti invece nell’opera di Mainetti – non aiuta. Le vicende potrebbero essere ambientate in America o in Russia, al posto dell’Italia del Ventennio, e non cambierebbe nulla: la contestualizzazione storica rimane “appesa” sullo sfondo come una sterile cornice. Achille Borsalino poi, sebbene sia portato in scena da un Filippo Timi molto bravo che mette a frutto le sue grandi capacità teatrali, risulta un personaggio stereotipato che vorrebbe fare maldestramente il verso all’inimitabile ufficiale Hans Landa di Bastardi senza gloria, villain di tutt’altra pasta.

Il gerarca non è il solo comprimario ad essere afflitto da sbavature: tutti i coprotagonisti sono in realtà delle macchiette bidimensionali senza sviluppo o archi narrativi che si rispettino. In merito a questo, vorrei che i piani alti della produzione mi spiegassero anche cosa ha a che fare la ladra nera interpretata da Coco Rebecca Edogamhe con il regime di Mussolini; sapete com’è, siamo nel bel mezzo di una dittatura ultranazionalista e razzista, non nel Vietnam. Tutto ciò viene peggiorato da delle performance attoriali al minimo sindacale e una sceneggiatura infantile – scritta a sei mani da Renato De Maria, Federico Gnesini e Valentina Strada – dai dialoghi blandi e pieni di insipide frasi fatte. In sintesi, bravi attori sfruttati male. Eccezion fatta per Maccio Capatonda, caotica spalla comica che strappa diverse risate genuine (e meno male direi).

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La pecca più evidente di tutto l’impianto drammatico, tuttavia, è riassumibile in una parola: superficialità (come ogni classico prodotto Netflix, diciamocelo). Essendo votato all’intrattenimento puro e disinteressato, il lavoro di De Maria e colleghi non orchestra un discorso antifascista sentito o che possa definirsi tale. In un periodo storico come quello odierno, lungometraggi di questo tipo sono più che mai necessari e non saranno frasi banali come “Fanculo il Duce, fanculo la storia” a fomentare sentimenti di rivolta contro il marciume politico. Se dovessi riassumere la morale di Rapiniamo il Duce con una frase poco elegante, quest’ultima sarebbe una cosa del genere: “daje, spacchiamo il culo ai fasci con i fuochi d’artificio perché sì, viva l’anarchia”.

Tirando le somme, Rapiniamo il Duce è un film furbo che prende a piene mani dal ben più pregevole e già citato Freaks Out, dai suoi stilemi e dalle sue intuizioni, restituendo un’opera mediocre che lascia il tempo che trova. Buona per un sabato sera di divertimento e niente più; del potenziale – seppur minimo – tristemente sprecato.

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Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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