Piove, il circolo vizioso del rancore e della rabbia

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Voto:

Rincuora immensamente vedere il cinema di genere farsi nuovamente largo in Italia, soprattutto se i suoi esponenti sono giovani registi di talento come Paolo Strippoli, già autore dell’ottimo A Classic Horror Story insieme a Roberto De Feo. Questa volta, da solo dietro la macchina da presa, il cineasta pugliese porta in scena Piove, un horror più intimo – dalle atmosfere alla Stephen King – al cui centro gravita un dramma familiare che è destinato a scivolare lentamente nel terrore e nella violenza. Una co-produzione italo-belga vincitrice, nel 2017, del Premio Solinas per la sceneggiatura di Jacopo Del Giudice (prima volta in assoluto in cui un film dell’orrore arriva in cima al podio). Ammetto di essere stato invaso da una curiosità quasi morbosa per questo lungometraggio e finalmente sono qui a parlarvene. Le mie aspettative erano alte, saranno state ripagate a dovere?

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Enrico, uno dei protagonisti.

Thomas (Fabrizio Rongione) è un padre con due figli a carico, Enrico (Francesco Gheghi) e Barbara (una bravissima Aurora Menenti). Sono una famiglia dai tanti problemi: il figlio, da quando la madre Cristina (Cristiana Dell’Anna) non c’è più, è irrequieto, nichilista e violento nei confronti del genitore e del prossimo. La bimba invece si dimostra sempre dolce e innocua, sebbene costretta in sedia a rotelle perché incapace di camminare. Il capofamiglia, rimasto solo, si barcamena a fatica tra i lavori più disparati e la tensione che si genera con i ragazzi è sempre alta: è un uomo esausto e difficilmente riesce a tenere testa al caos generato da Enrico – con cui non dialoga più – mentre bada amorevolmente alla dolce Barbara, una bambina che vorrebbe semplicemente rivedere uniti i suoi cari.

Le cose si complicano quando una strana sostanza melmosa viene rinvenuta nella Cloaca Maxima: essa emana dei fitti vapori tossici che, se respirati, scatenano una violenza latente sempre più forte, alimentata da oscuri istinti repressi e rabbiosi. In una Roma che diventa una galera irrequieta e cupa, il piccolo nucleo familiare si ritrova succube di ondate di crudeltà inaudita, un sentimento pericoloso di origine sconosciuta che riaffiora dal profondo.

In sostanza, Piove prende ispirazione dalla filosofia di George Romero: se nelle pellicole di quest’ultimo gli zombie assediano il pianeta per colpa di tutto ciò che c’è di marcio nella natura umana, lo stesso si può dire per i protagonisti di questo film, in balia di eventi più terreni di quanto ci si potrebbe aspettare. L’orrore è umano, non trascendente; non mancano, tuttavia, situazioni ascrivibili al soprannaturale – come visioni che ricordano alla lontana Shining – che istillano il dubbio nello spettatore, impedendogli di comprendere la verità dietro la melma grigiastra fino alla conclusione della storia.

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Una classica divisione in tre capitoli – Evaporazione, Condensazione, Precipitazione – che richiama non casualmente il ciclo dell’acqua, esemplifica il messaggio che Strippoli – con cui ho avuto il piacere di confrontarmi – vorrebbe lanciare: la rabbia e il rancore repressi sono emozioni simili all’acqua, appunto; una volta sedimentate, vengono prima o poi a galla. Come spezzare questo circolo vizioso? Proprio quest’ultimo punto è il fulcro della narrazione, un elemento che diventa chiaro solo e soltanto nel finale catartico, anticipato da un utile ed emozionante flashback. La parola chiave è “liberarsi“; a molti potrebbe sembrare banale come tema, ma fortunatamente viene trattato con elegante lucidità e sufficiente cura.

Sufficiente sì, ma non esente da storture che di tanto in tanto lasciano i buoni propositi in superficie, senza adeguati approfondimenti, rattoppati da soluzioni leggermente sbrigative. Nello specifico, parlo delle sequenze dedicate all’adolescenza dura e cruda di Enrico, personaggio talmente trasgressivo e disadattato da risultare troppo antipatico e la cui ragion d’essere viene giustificata solo nella conclusione. In altre parole, il suo nichilismo gratuito e molto esagerato rende difficile empatizzare a fondo con lui per buona parte del racconto; insomma parliamo di un liceale che – in preda ad un folle escapismo – va a letto con una prostituta che spera possa fargli da figura materna e che coinvolge il povero amico Gianluca (un ottimo Leon de la Vallée) in sciocche scorrerie.

Non giovano poi un primo atto che fatica ad ingranare – essendo concentrato soprattutto sugli screzi tra Thomas ed Enrico – e la costruzione della tensione, abbastanza altalenante: solo alcune scene possono dirsi veramente ansiogene e di forte impatto drammatico. Aggiungo che, al netto di una curiosità crescente che porta a chiedersi se la rabbia che avvolge i protagonisti prima o poi esploderà, la spiegazione attribuita allo strano fenomeno che mette in conflitto padre e figlio è sì plausibile, ma solo dopo una bella dose di sospensione dell’incredulità (propria della filmografia di argentiana memoria).

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Una delle preziose lezioni di Piove, come se non fosse palese, è che la mancanza di dialogo e di confronto porta inevitabilmente ad uno scontro logorante, ad una guerra d’attrito. Una battaglia in cui i famigerati vapori provocati dalla melma non creano problemi dal nulla, ma amplificano e portano in superficie quelli che già c’erano. Una dinamica piena di dolore e desideri sopiti non dissimile dalle vicende viste in Hereditary di Ari Aster (sebbene non si raggiungano quei livelli). Peccato che tutto il lungometraggio acquisti senso solo grazie all’ultima inquadratura, un effetto certamente voluto, ma che personalmente non ho apprezzato del tutto.

A proposito di rabbia, a far storcere decisamente il naso è la recente decisione della censura italiana di vietare Piove ai minori di 18 anni. Come può un’opera che pone al suo centro la gioventù, privare la gioventù stessa della possibilità di goderne? Non ha senso che un prodotto – “un horror sentimentale” – che condanna la violenza, che cerca uno spiraglio nella psiche più nera, venga castrato.

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Come sempre, chiudo questa recensione con l’analisi del comparto tecnico. La mano di Paolo Strippoli, prevedibilmente, non è affatto male: è palese la sua capacità di costruire immagini interessanti e originali, per quanto aderenti ai canoni del cinema horror. A creare qualche sbavatura è la direzione della fotografia di Cristiano Di Nicola che, malgrado supporti a dovere i temi cardine della trama donando colori virati sul verde torbido e sul blu, trovo un po’ troppo contrastata. Capisco che “contrasto” è una delle parole chiave – come afferma anche la costumista Nicoletta Taranta (L’incredibile storia dell’Isola delle Rose) – ma l’effetto videoclip è dietro l’angolo. Inoltre, l’utilizzo marcato di lenti anamorfiche che mantengono volutamente un’orrorifica distorsione costante dell’immagine – già lievemente sporcata dal focus in/focus out – appesantisce il tutto.

Nonostante ciò, la vera macchia dal punto di vista estetico è sicuramente il sonoro. Il mix audio è davvero sbilanciato: il volume altissimo di musiche ed effetti rende questi due elementi assai invasivi, dando addirittura luogo a jumpscare involontari. Non ho idea se questa stortura sia da attribuire all’Auditorium Conciliazione dove il film è stato proiettato in occasione della Festa del cinema di Roma o al sound designer Marc Bastien (Miss Marx) che ha probabilmente dato di matto. Dispiace particolarmente per la colonna sonora di Raf Keunen – una felice unione tra morbidi archi e graffianti suoni metallici – che ne viene fuori parzialmente compromessa.

Tirando le somme su Piove, le mie aspettative erano alte, forse troppo. Senza dubbio è una pellicola preziosa per il cinema italiano, ma l’avrei apprezzata ancora di più se solo fosse stata più coraggiosa e impattante. Il suo autore nel presentarla ha detto “spero che vi faccia male“: male non fa, non c’è abbastanza cattiveria per il sottoscritto; si preferisce infatti puntare sulla melanconia piuttosto che sulla paura autentica. Certo è, tuttavia, che si tratta di un prodotto di cui andare orgogliosi e da non snobbare. Fandango lo distribuirà nelle sale dal 10 novembre, save the date.

https://www.youtube.com/watch?v=8QmrmU3QDtA

Nefasto Articoli
Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

4 Commenti

  1. Quindi il troppo contrasto porta tutto verso la dimensione del videoclip. Complimenti somaro; studia prima di scrivere. Saluti

    • Buonasera. Io non so se sto rispondendo al vero Vittorio Storaro, direttore della fotografia, o ad un omonimo. Spero nella prima alternativa perché potrebbe nascere un confronto stimolante.

      Detto ciò – insulto a parte che trovo superfluo – la fotografia di Piove non lo accomuna assolutamente ad un videoclip, essendo ben fatta e nobilitando la sua componente orrorifica, forse mi sono espresso male nell’articolo. Dico solo che, in alcune scene o sequenze, l’alto contrasto donato alle immagini stona con le atmosfere generali del film, avvicinandolo a prodotti più ascrivibili ai video musicali (almeno secondo la mia visione che, ovviamente, può essere confutata).

      In ultimo, tengo a precisare questo: sono uno studente universitario alla fine della mia magistrale in cinema (per quello che vale). Ciò significa che la mia passione – che vorrei trasformare in un lavoro continuando a specializzarmi nel campo – mi porta ad analizzare ciò che guardo in maniera molto attenta, odio la superficialità. Ergo, io non scrivo mai a sproposito e ho studiato davvero tanto prima di lanciarmi nella pubblicazione di recensioni. Ciò, naturalmente, non mi pone mai una spanna sopra al prossimo, siccome posso sbagliare come tutti. Non credo però che stigmatizzare aspramente una mia eventuale caduta di stile come lei ha fatto, possa essere una correzione costruttiva, tutt’altro.

  2. Purtroppo il suo giudizio è arbitrario e non supportato da nessuna tesi. Il linguaggio fotografico del videoclip, come quello del cinema, non è ascrivibile ad una impostazione di alcun tipo; al massimo del videoclip, avendo una propensione commerciale, a livello statistico si può parlare di una “fotografia laccata”- che è il contrario di quello che ha scritto -, ma anche questo sarebbe molto riduttivo. Mi scusi per l’insulto ma quello che ha scritto è una corbelleria – e quando ci si prende la responsabilità di dire qualcosa bisogna conoscere l’argomento. Saluti

    • La ringrazio per la precisazione concisa e puntuale. Le assicuro che terrò bene a mente le sue parole nei miei prossimi articoli.

      Ho un’ultima curiosità, se permette: lei è a tutti gli effetti il Vittorio Storaro, direttore della fotografia di Novecento, Apocalypse Now, L’ultimo imperatore et alii?

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