Barbie è uscito da pochi giorni e in appena una settimana ha già portato in sala un quantitativo di pubblico e incassi notevole, complice sicuramente la massiccia strategia di marketing e la concomitanza dell’uscita del film (negli Stati Uniti) con quella del più cupo Oppenheimer di Christopher Nolan, che ha dato vita al meme evento definito “Barbenheimer”. Diretto da Greta Gerwig e scritto a quattro mani da lei e il marito Noah Baumbach, Barbie già nelle premesse rappresenta una contraddizione curiosa: due autori e registi noti per la loro gavetta nel cinema indipendente firmano un film prodotto dalla Mattel, stessa casa di produzione della famosa bambola, e si ritrovano quindi a che fare con un gran bel budget e con uno dei giocattoli per bambini più controversi di sempre.
Pensando a Lady Bird della Gerwig, e a Frances Ha e Rumore bianco di Baumbach, si hanno ben presenti la delicatezza con cui la prima parla di tematiche adolescenziali e rapporto madre-figlia, e la perspicacia con cui invece il secondo affronta tematiche sociali collegandole alla precarietà giovanile e all’ipocrisia politica di Stati, governi e università. Ci si aspetterebbe, quindi, un approccio satirico e acuto nei confronti di tutto ciò che questa bambola rappresenta; invece, in Barbie purtroppo l’approccio dei due autori viene soffocato da chiari limiti imposti dall’aver a che fare con un prodotto di così grande portata economica.
Il film si apre con una citazione parodica a 2001: Odissea nello spazio, dove l’avvento di Barbie è visto alla pari di un’evoluzione che sancisce il passaggio dalle scimmie agli esseri umani: le bambine passano dal giocare alle mamme, con dei bambolotti che assomigliano a dei bebè, all’avere invece fra le mani la prima bambola dalle fattezze di donna. Questo cambiamento porta Barbie a diventare idealmente un’ispirazione per le piccole che hanno la fortuna di averne una, facendo loro capire che possono diventare non solo madri, ma anche dottoresse, astronaute, insegnanti. Convinte quindi di essere state fautrici di un radioso destino per le donne nel mondo reale, le Barbie passano serene la loro vita a Barbieland, luogo di plastica che rispecchia perfettamente il mondo su misura venduto dalla Mattel nel corso degli anni.
Nella sua Casa dei sogni, con tanto di scivolo e piscina, Barbie (Margot Robbie) trascorre felice la sua esistenza in un mondo matriarcale dove i Ken sono solo un contorno nella vita delle Barbie, che invece mandano avanti il paese ricoprendo tutte le posizioni di potere. La vicenda s’innesca nel momento in cui Barbie cade preda di una crisi esistenziale: iniziano all’improvviso a venirle pensieri di morte, per la prima volta il suo alito la mattina non profuma e le sue gambe sono ricoperte di cellulite. Su suggerimento di Barbie stramba (la tipica bambola maltrattata dalle bambine più vivaci, con i colori spalmati in viso e i capelli tutti tagliati) decide quindi di recarsi nel mondo reale. Inizia così il viaggio di Barbie – e Ken (Ryan Gosling), che le si imbuca in macchina per aiutarla – alla ricerca di una risposta.
Quando Barbie mette piede per la prima volta nel mondo reale inizia il conflitto centrale del film: la realtà è completamente diversa da quella che lei si aspettava di trovare, perché scopre che le donne non vengono trattate con rispetto e non ricoprono alcuna carica influente a livello sociale né a livello politico, a differenza di quello che accade a Barbieland. Viste le premesse, e visto quanto mostrato in questa prima parte del film, ci si aspetta una costruzione che verta sul capovolgimento dei ruoli, con Barbie che, rendendosi conto che il modo in cui sono trattate le donne nel mondo reale è lo stesso con cui lei e le altre trattano i Ken, inizi a riflettere su come il potere sovrastato di un genere sull’altro porti inevitabilmente a una disuguaglianza, e che quindi neanche la realtà di Barbieland alla fine è così perfetta. Il problema è che questo non avviene.
La geniale idea del mondo di plastica iniziale, che riproduce esattamente il modo in cui da bambini si metteva mano alle bambole per muoverle, farle camminare, volare e roteare, si unisce a quella di traslare nella realtà delle Barbie quella che è a tutti gli effetti la mascolinità tossica, rendendola al femminile. Queste due basi brillanti però durano poco, perché la ricerca di Barbie resterà sempre e solo sul piano personale, anche quando si farà finta di volerla rendere collettiva. La Barbie di Margot Robbie affronterà il suo percorso privato di ricerca del sé, al punto che risulterà sempre scollata dal contesto e dalle altre comprimarie che dovrebbero essere sue compagne d’avventura: lo sforzo di collaborazione, con la scusa della linea parodica preponderante nel film, verrà ridotto a una sequenza banale di monologhi e piani strategici che smorzano anche quello che dovrebbe essere il momento catartico (che personalmente, dopo tutto il crescendo di ingiustizie sistemiche mostrate, attendevo con ansia).
Mentre Ken paradossalmente diventa il personaggio più interessante, con tutti i suoi conflitti interiori perennemente esternati ed estremizzati al massimo (grazie ad un Ryan Gosling che mai è stato così espressivo e convincente), Barbie si muove su un piano parallelo rispetto a lui e a tutti gli altri personaggi restando spesso sul drammatico. Il problema, almeno per me, è stato nella discrepanza fra le aspettative e la realizzazione: con un parallelismo così potente ad aprire il film, che dichiara a gran voce un intento satirico oltre che parodico, è stato un peccato che poi le riflessioni non concludessero quello che avevano promesso, estendendosi a un’autocritica da parte di Barbie sulla consapevolezza del modo in cui ha trattato Ken, in un rovescio della medaglia che sarebbe sicuramente stato d’impatto.
Barbie riflette sulla sua funzione e su ciò che lei stessa rappresenta (il che è già ottimo di per sé), ma non applica questo modo di pensare a ciò che la circonda, rendendo l’insistente discorso su matriarcato/patriarcato superficiale, perché semplicemente non è quello il punto. Il film cambia quindi focus, concentrandosi sulla crisi esistenziale di Barbie anziché su una ben più ampia (e conseguente) crisi sociale, nonostante la vicenda centrale verta proprio su quest’ultima parte.
L’impressione quindi è quella che si siano voluti trattare temi attuali senza però andare fino in fondo alla questione; ci si approccia dapprima con un sottotesto serio, e poi lo si lascia tutto diluito all’interno della linea comica. Il film in quanto commedia bizzarra e pungente funziona, grazie a battute e siparietti ad hoc che incontrano i gusti di tutti, dagli amanti del demenziale e del nonsense a quelli del dark humor e della satira; il problema è che costruisce tutto su una metafora seria che si rivela inconcludente, con discorsi spiccioli (dietro la scusa che siano ironici) su capitalismo e patriarcato e su solidarietà femminile e ordinarietà. Il mondo delle bambole può essere dannoso, ma facciamo in modo che continui ad esistere lo stesso senza quasi nessun cambiamento.
Nei dialoghi si sente la presenza pungente di Baumbach e nel comportamento tragicomico di Barbie si cela tutta la potenza autoriflessiva di Gerwig, però ho avuto come l’impressione che entrambi siano stati messi in secondo (ma anche terzo) piano col pretesto dell’intento parodico.
Tenendo comunque in conto che tutti gli attori funzionano benissimo, la scenografia per Barbieland è accuratissima e anche la colonna sonora si adatta al tono di ogni scena, il motivo del voto a metà è dovuto principalmente alla mia personale delusione per ciò che il film prometteva di essere. Non il baluardo avanguardistico del femminismo contemporaneo, perché sarebbe stato ingenuo considerando la Mattel fra i produttori, ma una riflessione comica con un sottotesto critico portato avanti fino alla fine, anziché un film molto divertente ma fine a sé stesso.
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