Dopo essere stato l’evento fuori concorso più atteso di Cannes 76, Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese arriva ufficialmente nelle sale italiane dal 19 ottobre come una delle più potenti e attese proiezioni cinematografiche dell’anno. Il 26° lungometraggio del maestro italoamericano è, come da un po’ di anni a questa parte, un enorme film fiume di 206 minuti, adattato dal romanzo omonimo (da noi noto come Gli assassini della Terra Rossa) e che alla pari di The Irishman si pone come un ritratto antropologico e sociale di una porzione importante di storia americana.
Se il precedente lungometraggio mostrava, tramite i suoi protagonisti, il cambiamento durante i decenni della mafia e delle sue dinamiche di potere rispetto allo Stato, questa volta il livello temporale rimane legato agli anni ’20 del Novecento, mentre si esplora in maniera molto approfondita il trattamento che la società americana ha riservato ai nativi Osage dell’Oklahoma, nel momento in cui erano diventati la popolazione più ricca degli Stati Uniti grazie ai giacimenti di petrolio nel loro territorio. Un livello talmente approfondito che ha necessitato, come dichiarato dallo stesso regista, di una riscrittura completa rispetto al libro di partenza (in cui il protagonista era lo sceriffo) per non cadere nella trappola di avere ancora un punto di vista bianco sulla questione, bensì prendere per la prima volta in considerazione il punto di vista dei nativi.
Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) è un reduce della Grande Guerra che, tornato in patria, viene convinto dallo zio William Hale (Robert De Niro) a sposare Mollie (Lily Gladstone), una giovane Osage, così da poter mettere le mani sui terreni dei nativi. Nel momento in cui iniziano a verificarsi strani e frequenti omicidi, soprattutto di “indiani”, l’investigatore Thomas Bruce White Sr. (Jesse Plemons) della Pinkerton – agenzia che poi si sarebbe trasformata nell’FBI – viene inviato sulla scena, e nel libro originale la storia si svolge effettivamente dal suo punto di vista. Scorsese, come preannunciato, non segue questa narrazione e rende da subito esplicito, grazie a un’interpretazione incredibile e mefistofelica di De Niro, chi sono i mandanti di questi omicidi, le dinamiche con cui questi vengono perpetrati e il movente generale, il tutto nella totale immobilità di uno Stato che sembra quasi avallare questo comportamento.
Emblematico è il personaggio di DiCaprio – anche lui con una grandissima e inedita interpretazione – in quanto, essendo un sempliciotto di campagna piuttosto ingenuo, non vede la malizia nelle azioni dello zio e di chi gli sta intorno, finendo sempre per credere a tutto quello che gli viene raccontato. Spesso non comprende nemmeno la moglie, una davvero ottima Lily Gladstone, il cui personaggio è anch’esso metafora dell’intero film, o meglio della storia dei nativi americani, inizialmente ingannati con una vita di comodità per cercare di ingraziarseli e, qualora non avesse funzionato, eliminati o resi inermi.
Se si può trovare un unico grande difetto in quest’ultima opera di Scorsese forse è proprio l’eccessiva durata, ma non tanto per una tracotanza di materiale di cui si poteva fare a meno, quanto per il modo in cui questo viene presentato allo spettatore. Infatti il film, nonostante una messa in scena mostruosa e delle inquadrature sempre ispiratissime e centrate con la narrazione, è forse troppo impegnato a costruire un contesto sociale e un susseguirsi serrato degli eventi per tenere bene in considerazione i suoi personaggi e soprattutto le loro vicende emotive, che quindi passano in secondo piano in favore di un affresco più grande, un po’ come abbiamo visto anche in Oppenheimer.
Ma se nel film di Nolan l’intento sociologico lascia spazio almeno alla psicologia del suo protagonista, Scorsese qui sembra quasi disinteressato a far empatizzare lo spettatore con un qualsiasi personaggio, e per quanto questa scelta stilistica si sposi sicuramente bene con l’intento della narrazione, a soffrirne può essere lo spettatore non riuscendo a trovare un appiglio solido a cui ancorarsi in queste 3 ore e 26 minuti, finendo per navigare a vista senza comprendere nemmeno l’andamento della storia, mai prevedibile e fin troppo infarcita di dettagli e personaggi secondari. Uno fra tanti è il subdolo avvocato W.S. Hamilton, interpretato benissimo da un rinato Brendan Fraser, che però come altri personaggi soffre di uno screen time molto limitato.
Nonostante il suo essere così ostico, Killers of the Flower Moon rimane comunque l’ennesima vittoria per una regista ormai ultraottantenne, che tuttavia sembra rimanere più moderno anche di molti suoi successori. Se infatti è possibile tracciare una linea nella filmografia di Scorsese, probabilmente quella più importante non sarebbe sulle tematiche mafiose o americane, quanto più in una costante ricerca per rimanere al passo con i tempi coniugando però a questo il cinema classico e le sue storie, sovvertendo non solo i topoi narrativi, ma anche quelli estetici.
In un periodo in cui molti dei suoi coetanei faticano anche solo a trovare budget (ad esempio Coppola o Carpenter), il cinema di Scorsese è ancora vivo, ma è mutato: si è rinnovato sotto forma di proiezione/evento che ora è l’unico modo con cui si riesce a trainare il pubblico in sala. Continua a cambiare a mettersi in discussione con i più giovani, che siano registi come Ari Aster – citato come influenza principale della messa in scena del film – o nuove sensibilità che lo portino a modificare il punto di vista, così da poter spostare e far evolvere ancora un’arte, quella del cinema, e del suo luogo sacro, la sala cinematografica, senza che queste vengano soppiantate di punto in bianco.
Da questo punto di vista Scorsese rimane il più lungimirante e forse rivoluzionario dei registi, perché è riuscito a rinnovarsi e modificarsi rimanendo sempre però fedele a sé stesso e a un unico ideale: quello della narrazione cinematografica al di sopra di qualsiasi interesse economico.
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