Impossibile non affrontare con entusiasmo i primi giorni dell’80ª Mostra del Cinema di Venezia, dopo aver notato il talentuoso Pablo Larraín tra i registi in concorso per il Leone D’Oro. A seguito dello splendido Spencer, un biopic rarefatto e avvolgente sulla figura di Lady Diana, il cineasta torna a trattare di politica con El Conde, una commedia nera distribuita da Netflix e pervasa da ben altri toni, nonché lievi tratti orrorifici.
La trama è semplice: le vicende sono ambientate in un universo parallelo, ispirato alla storia recente del Cile. In questo mondo, il generale fascista Augusto Pinochet (un ottimo Jaime Vadell) vive nascosto in una villa in rovina nella fredda estremità meridionale del continente. Da buon vampiro, si nutre di sangue e cuori umani per perpetuare la propria esistenza. Dopo 250 anni di atrocità, tuttavia, decide di farla finita una volta per tutte: non sopporta l’odio che il mondo prova nei suoi confronti, odio che lo costringe a rimanere nell’ombra. Decide quindi, vecchio e stanco, di chiamare a raccolta la sua famiglia per la spartizione della sua enorme eredità, evento che porta scompiglio nella sua dimora.
I figli del dittatore, infatti, sono tutti caratterizzati da una profonda avarizia, un sentimento che li porta a trascurare il padre, del quale apprezzano solo l’immenso prestigio. Non avendo mai lavorato in vita loro, ingaggiano una contabile di nome Carmen (Paula Luchsinger) per un’equa divisione dei possedimenti. Nella loro superficialità da sfaticati ignorano, però, la vera identità della donna: una suora sotto copertura, mandata dalla Chiesa per esorcizzare Pinochet. Un mix pronto a esplodere tra litigi, imbrogli e curiosi triangoli amorosi in cui viene coinvolto anche il fedele braccio destro del protagonista, l’imperscrutabile maggiordomo Fëdor (Alfredo Castro).
A essere onesti, l’idea alla base del film è stuzzicante e apre a diversi siparietti divertenti, sulla falsariga di un What We Do in the Shadows di Taika Waititi. Nonostante ciò, la sceneggiatura – scritta a quattro mani da Larraín stesso e Guillermo Calderón – non riesce a trovare un equilibrio tra la commedia e il lungometraggio d’autore, offrendo allo spettatore una messa in scena che ha difficoltà a far ridere quando dovrebbe e che, allo stesso tempo, presenta qualche caduta di stile leggermente pretenziosa.
Il messaggio principale di El Conde è chiaro e diretto: il suo autore cileno, colpito in prima persona dall’oscura figura di Pinochet, ha voluto immaginarlo nelle vesti di un succhiasangue, di un essere che non smette di imperversare nella Storia con la esse maiuscola, sia nell’immaginario collettivo che negli incubi dei suoi detrattori. I crimini del tiranno – così come i vampiri – non scompaiono così facilmente, soprattutto se si pensa che il politico non ha mai affrontato la giustizia faccia a faccia.
Larraín e soci hanno voluto sottolineare “la brutale impunità che Pinochet rappresenta, mostrandolo per la prima volta apertamente, in modo che il mondo potesse cogliere la sua vera natura: vedere il suo volto, respirare il suo odore“. Un obiettivo con cui il linguaggio della satira e della farsa politica si sposa bene, poiché costruisce non solo una parodia del biopic tradizionale, ma anche un’allegoria che vede la Storia ripetersi con dolore, “resuscitare” proprio come un non-morto con cui è impossibile empatizzare.
Eppure, come evidenziato, questo sbeffeggiamento della dittatura è minato da diverse problematiche da attribuire soprattutto alla scrittura: la retorica proposta è di grana grossa e si ha spesso la sensazione che le tante tematiche del racconto – come il controverso rapporto tra Pinochet e la Chiesa cattolica – vengano affrontate in maniera superficiale. Un difetto che, specialmente dopo la profondità meticolosa di Spencer, fa storcere fortemente il naso. Una sbavatura che, forse, poteva essere mitigata virando il film verso la commedia pura, rinunciando invece a pretese artistiche fuori posto.
Il ritmo a tratti eccessivamente contemplativo, difatti, tradisce le buone intenzioni del film e svilisce trovate geniali come l’uso di una sibillina voce narrante, appartenente a un’altra figura storica di spicco, tanto malefica quanto esilarante nel momento della sua entrata in scena. Non aiuta il montaggio di Sofía Subercaseaux (Le strade del male), fatto di molteplici salti da una situazione all’altra. Una frammentazione eccessiva che non giova ai dialoghi, legante fondamentale delle vicende. Fortunatamente, sono le buonissime prove attoriali dei due protagonisti, Jaime Vadell e Paula Luchsinger, a trasportare lo spettatore.
Il primo si cala bene nella parte del militare pieno di acciacchi, tormentato dalla sua impossibilità di morire; un estremo oppositore delle rivoluzioni e dei comunisti, una scaltra serpe fascista che evita sempre con eleganza il rischio di diventare una macchietta. La giovane suora esorcista, nel suo essere camaleontica e vagamente erotica, ricorda invece molto da vicino la Giovanna d’Arco interpretata da Renée Falconetti ne La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, senza tuttavia raggiungerne mai il livello interpretativo fuori scala.
A proposito di tributi, il lato registico e fotografico di El Conde è certamente quello più lodevole della pellicola: sono numerose le inquadrature che citano, direttamente o meno, l’intramontabile Nosferatu il vampiro di Murnau, nonché il cinema espressionista tedesco dei primi del Novecento. Il bianco e nero di Edward Lachman (Il giardino delle vergini suicide, Cattive acque), straordinario direttore della fotografia, è di alta classe.
In ultimo le musiche, che strizzano l’occhio alle sonorità ariose di Antonio Vivaldi, accompagnano egregiamente la caduta romantica di un Generale che si credeva illuminato, nonostante le comprovate stragi e gli efferati crimini contro l’umanità.
Quest’opera sanguinaria, sgarbata e politicamente scorretta non si piega alle politiche di Netflix, offrendo attimi truculenti e volutamente carnali. Peccato che questi eccessi, spesso e volentieri, sembrino inseriti semplicemente per il gusto di farlo, per divertirsi in un gioco pieno di autocompiacimento e poco più. Una dimensione grottesca efficace, azzeccata, ma fine a sé stessa.
El Conde è un esperimento riuscito ma zoppicante proprio come il suo Augusto Pinochet: un film che, da un lato, intrattiene e funziona nel mostrare la visione personale del regista sia del mito di Dracula, sia di quello dell’ex Presidente del Cile; dall’altro però fallisce nel beccare il giusto bilanciamento. Il risultato finale, paradossalmente, è troppo serio per essere frivolo e al contempo troppo frivolo per essere serio.
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