La 19ª edizione della Festa del Cinema di Roma ha avuto il privilegio di ospitare il poliedrico Viggo Mortensen (Il Signore degli Anelli, Green Book, Crimes of the Future) per una serie di eventi speciali, tra cui un premio alla carriera, una corposa masterclass e, soprattutto, varie presentazioni in giro per Roma del suo ultimo film da regista: il western The Dead Don’t Hurt. Quest’ultimo è stato presentato in anteprima mondiale al Toronto Film Festival dello scorso anno ed è giunto nelle nostre sale pochi giorni fa – il 24 ottobre – a distanza di quattro anni dall’ultimo lungometraggio scritto e diretto dal cineasta statunitense, ovvero Falling – Storia di un padre.
Mortensen non si discosta molto dal suo stile intimista e filosofico e si lancia in un genere complesso e ormai di nicchia come il western per darne una sua visione. “Di solito la donna non è mai il personaggio principale di un western. Io ho voluto centrare tutto su di lei, ho voluto indagare i suoi sentimenti” – queste le parole del buon Viggo. Ciononostante è importante sottolineare che, al contrario di quanto è stato affermato più volte da parte di critici e giornalisti, il lungometraggio non vuole essere un “western femminista”, non è mai stato quello l’obiettivo. L’opera è una potente love story, supportata da una profonda riflessione sul perdono e la vendetta senza contaminazioni ideologiche. Il tutto è arricchito da suggestioni provenienti dal celebre Johnny Guitar di Nicholas Ray, vista la presenza di una protagonista femminile di peso che omaggia la madre del regista. Tanta carne al fuoco che apre ad altrettante riflessioni.
Siamo negli anni Sessanta dell’Ottocento, in piena Guerra Civile americana. Vivienne Le Coudy (Vicky Krieps) è una donna franco-canadese spigliata e indipendente che, durante un giro di compere al mercato del pesce di San Francisco, incontra l’immigrato danese Holger Olsen (Viggo Mortensen). I due si innamorano a prima vista e decidono di andare a convivere nella casa dell’uomo, situata in un piccolo appezzamento di terreno presso l’apparentemente pacifica cittadina di Elk Flats, in Nevada. Purtroppo la loro vita insieme viene bruscamente interrotta da un’inaspettata decisione di Olsen: l’ex soldato vuole tornare a combattere in nome della libertà, arruolandosi tra i ranghi dell’Unione per favorire la lotta alla schiavitù. Questa presa di posizione rompe l’equilibrio della coppia e Vivienne è costretta a rimanere da sola in una città dove, a ben vedere, tira una pessima aria.
Elk Flats è governata da un sindaco corrotto, Rudolph Schiller (Danny Huston), che amministra gli affari con uno spregiudicato ranchero di nome Alfred Jeffries (Garrett Dillahunt). Quest’ultimo cresce un figlio ancora più pericoloso di lui, Weston (Solly McLeod): un cowboy che tiene sotto scacco i cittadini con fare violento, soprattutto quando si tratta di frequentare il saloon di Alan Kendall (William Earl Brown) di cui è coazionista. La frontiera occidentale degli Stati Uniti è dunque una polveriera pronta a esplodere, teatro di soprusi e brutalità. Un ambiente che avvolge e incatena la povera Vivienne che, in attesa del ritorno dell’amato compagno e forte della sua compassione, deve difendere sé stessa da un mondo spietato, dominato da uomini senza scrupoli.
Il paesino che fa da sfondo alle vicende è ammantato di un costante alone di morte che viene squarciato solo dalla gentilezza quasi dantesca della protagonista; una figura piena di decoro, di dignitosa bellezza, nonché dotata di grande nobiltà d’animo. Virtù che riportano la vita nel piccolo nido d’amore tenuto in piedi anche da Olsen e che a poco a poco si ricopre di fiori rigogliosi. I luoghi spiccatamente bucolici e rurali di The Dead Don’t Hurt – sulla stessa falsariga di Bastarden con Mads Mikkelsen – sono quindi i primi elementi che saltano all’occhio, complice una narrazione assai contemplativa e intervallata da lunghi silenzi. La scrittura, in questo senso, oscilla tra la dolcezza affettuosa e il dramma malinconico, non disdegnando brevi siparietti comici.
Proprio questo oscillare continuo caratterizza l’andamento non lineare del film, il cui montaggio ellittico e frammentato esplora il passato e il presente dei due amanti senza soluzione di continuità. Una scelta audace e apprezzabile che richiede allo spettatore di ricostruire pezzo dopo pezzo la loro parabola. Peccato per il ritmo non sempre ben gestito, rallentato eccessivamente proprio dai numerosi salti temporali che non permettono a certe scene di raggiungere a dovere il loro climax: capita spesso, infatti, che il coinvolgimento venga stroncato da tagli di montaggio che smorzano improvvisamente la tensione, lasciando insoddisfatti. In questo slow burn di 2 ore e 10, è la seconda parte del lungometraggio a funzionare meglio, dato che, in prossimità del finale, le vicende si fanno ben più coerenti.
In altre parole, ci si trova davanti – ellissi a parte – a un puro western americano, una pellicola che guarda all’eredità di John Ford, Howard Hawks e Delmer Daves e che centellina la violenza per lasciarla esplodere in rari momenti inattesi. Un racconto autentico che rappresenta sullo schermo personaggi di varia nazionalità: francesi, messicani, cinesi, italiani… nel rispetto di ciò che erano le terre statunitensi di fine Ottocento. Così Viggo Mortensen affronta la tematica dell’immigrazione a lui vicinissima, in quanto figlio poliglotta di un’americana e di un danese, cresciuto tra l’Argentina e New York come uno straniero tra stranieri.
L’unica rottura con il genere di appartenenza avviene attraverso la storia d’amore non convenzionale, cuore pulsante dell’opera. Gli archetipi classici tipicamente usati nella rappresentazione dei ruoli femminili vengono violati in favore di una donna profondamente indipendente, testarda e padrona di sé come una novella Giovanna d’Arco (citata a più riprese con importanti flashback). Una donna molto avanti rispetto al suo tempo, con una prospettiva diversa su cosa sia la femminilità e su quale sia il suo ruolo nella comunità. Non è al servizio delle strutture sociali esistenti e sceglie di stare con un uomo che, nonostante il suo stesso codice patriarcale, ha l’umiltà e la capacità di rispettarla.
Vivienne – interpretata splendidamente da una Vicky Krieps già nota ai più per Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson – vive in un mondo dove si combatte per i possedimenti terrieri o si uccide per vincere una guerra, seguendo scrupolosamente una mentalità imperialista che non tiene conto delle persone con cui si condivide il luogo dove si è nati. È tutto un gioco di oppressori e oppressi che la protagonista affronta con l’unico strumento che ha per dimostrare la sua forza: il perdono.
Un personaggio di tale peso, tuttavia, non sarebbe mai nato senza l’apporto inconsapevole di Grace Gamble Atkinson, la madre di Mortensen a cui il film è dedicato. Con Falling – che oggi potremmo considerare a tutti gli effetti il lungometraggio gemello di The Dead Don’t Hurt – il regista ha elaborato alcuni aspetti emotivi legati alla scomparsa della figura materna attraverso un dramma familiare che affronta la complessità del rapporto genitore-figlio. Con il Far West, invece, ha tirato fuori la sua vena più malinconica.
“Questa storia è nata da un’immagine di mia madre” – racconta Viggo in occasione della Festa del Cinema di Roma. “Ho libri illustrati degli anni Trenta che lei leggeva da bambina: storie di cavalieri e avventure medievali. Era cresciuta vicino ai boschi nel nord-est degli Stati Uniti, vicino al confine canadese, e la immaginavo da bambina mentre correva immersa nella natura, sognando di essere in una delle storie che aveva letto in quei vecchi romanzi. Questa era l’idea iniziale che avevo in testa quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura nel 2020“.
Lo spirito di Grace Gamble permea tutta la pellicola laddove si cerca di dare una risposta alla domanda “cosa vuol dire essere donna, moglie e madre?“. E mentre sullo sfondo imperversa la Guerra Civile, altri due conflitti si consumano e si confrontano: la battaglia solitaria di Olsen al fronte e la lotta quotidiana di Vivienne a Elk Flats; probabilmente un ennesimo richiamo autobiografico attraverso il quale Viggo Mortensen esorcizza il divorzio dei suoi genitori.
A proposito di richiami autobiografici, il già citato legame con la natura è stato il pilastro forse più importante dell’infanzia del cineasta. Da piccolo era un ragazzino solitario che adorava esplorare a cavallo le terre argentine fingendosi un indiano; non sorprende quindi la cura meticolosa che ha riservato alla messa in scena. Fissato con la verosimiglianza e l’accuratezza storica delle ambientazioni, Viggo Mortensen ha scelto lo Stato messicano di Durango per ospitare le riprese, celebre tra gli anni Sessanta e Settanta per aver fatto da sfondo ad altrettante produzioni di stampo western.
È palese che le scenografie, firmate dai fidati collaboratori Carol Spier (Crimes of the Future) e Jason Clarke (Black Mirror), siano state allestite ponendo la massima attenzione al dettaglio per rendere giustizia ai maestosi panorami del Messico. L’ottimo risultato raggiunto si deve anche al prezioso supporto della costumista Anne Dixon (The Song of Names) e del direttore della fotografia Marcel Zyskind (Dalíland). Tutto il comparto visivo e artistico è assai pregevole e coronato da una precisione filologica invidiabile, riscontrata in poche produzioni affini (Silverado di Lawrence Kasdan ne è un esempio).
Discutendone alla masterclass dedicata, Viggo ha sottolineato che, quando segue un’avventura nel Far West, le due cose che osserva subito sono come il cast cavalca e le caratteristiche dei paesaggi. “Gli attori come montano e smontano da un cavallo? Come tengono le redini? Per me sono tanti gli elementi da tenere in considerazione per aumentare l’immersione in un film”. Persino i cavalli stessi sono interpreti riconosciuti e celebrati, tanto da comparire uno per uno nei ringraziamenti speciali dei titoli di coda.
In veste di regista, Mortensen è pienamente consapevole del mezzo cinema e si cimenta in movimenti di macchina arditi ma calcolati. Padroneggia egregiamente le inquadrature e le costruisce con gusto ed eleganza, dai primissimi piani ai campi lunghi. Per la prima volta nella sua carriera, poi, compone personalmente le musiche per una colonna sonora delicata e rarefatta che culla lo spettatore. In qualità di attore con il volto da perfetto cowboy, infine, non monopolizza mai le sequenze che lo vedono in scena, bensì lascia a tutti lo spazio per emergere e brillare. Soprattutto se si parla di Solly McLeod (Outlander, House of the Dragon) che con il suo spregevole e spaventoso Weston Jeffries alza la tensione semplicemente entrando in campo.
The Dead Don’t Hurt è un western che ha in sé due anime ben distinte ma complementari. Da un lato si dimostra un racconto crepuscolare, richiamando alcuni dei ragionamenti sulla vita e la morte che il suo autore faceva con la madre, senza cinismo ma dimostrando anzi un forte attaccamento alla vita. Dote che svela il secondo volto del lungometraggio, quello carico di un vitalismo che invita ad apprezzare gli inestimabili e sottovalutati momenti di felicità passeggera insieme al tempo che scorre e scandisce le nostre esistenze.
Pieno di cuore e dotato di una notevole raffinatezza espressiva, il secondo lungometraggio di Viggo Mortensen è un inno alla gentilezza e alla compassione, da esercitare secondo l’interpretazione filosofica di Arthur Schopenhauer, ovvero come “una delle strade che porta alla liberazione dal dolore universale dell’uomo“. Quest’ultimo, provando compassione nel senso originario del termine – cioè patendo assieme agli altri per il loro dolore – non solo prende coscienza del dolore stesso, ma lo sente e lo fa suo. La sofferenza, unendo gli uomini, li accomuna e li conforta o – come direbbe Freud – si vis vitam, para mortem: se vuoi sopportare la vita, impara ad accettare la morte.
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