La città proibita – Il kung fu all’amatriciana di Gabriele Mainetti

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Nell’odierno panorama cinematografico italiano, Gabriele Mainetti è un nome che ormai fa drizzare le antenne di critica e appassionati. Il regista ha attirato su di sé l’attenzione del pubblico a partire dal 2015, anno di uscita dell’ottimo Lo Chiamavano Jeeg Robot, film supereroistico premiato ai David di Donatello come miglior esordio alla regia, primo tra tanti altri riconoscimenti. Fortunatamente il cineasta romano non è stato solo una stella cadente, bensì un artista capace di tenere fede a un ideale che lui stesso si è imposto: riportare in auge il cinema di genere in Italia. Certo, non si può dire che sia l’unico con questo bel proposito – non dimentichiamoci di Gabriele Salvatores e dei Manetti Bros. – né che i suoi piani siano andati sempre per il meglio.

Freaks Out infatti non è un esperimento completamente riuscito, bensì un timido tentativo di produrre “un’avventura degli X-Men all’italiana”. Il risultato, secondo il sottoscritto e altre voci più autorevoli, non è stato del tutto soddisfacente poiché troppo filo-americano, nonché deficitario di quello stuzzicante mix tra autorialità e cinema estero che contraddistingueva i primi lavori di Mainetti (cortometraggi come Tiger Boy inclusi). Quest’ultimo ha fatto dunque un passo indietro, cambiando le carte in tavola e orientandosi verso qualcosa di inedito e, allo stesso tempo, pericoloso: le arti marziali orientali.

Stando a varie interviste, portare nel nostro paese l’eredità artistica di Hong Kong è sempre stato un sogno nel cassetto del regista, la difficoltà stava nel rispettare i suoi stilemi, inserendoli armoniosamente in un contesto nostrano. La parola d’ordine de La città proibita è stata, fin da subito, interculturalità. Una contaminazione rara al giorno d’oggi e che porta nuovamente a chiedersi: si può ancora fare cinema di genere nel Bel Paese?

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Se Lo Chiamavano Jeeg Robot ha dovuto faticare per ottenere la possibilità di essere distribuito dalla Lucky Red, dieci anni dopo lo stesso non si può dire per questa follia esotica in salsa italo-cinese. L’era indie di Mainetti è quindi conclusa; un aspetto che, per molti versi, giova al progetto permettendogli – prima di tutto – di avere un nutrito gruppo di attori asiatici nel cast. Cast che naturalmente presenta anche star italiane assai note come Marco Giallini, Sabrina Ferilli e Luca Zingaretti. Nomi del genere, a prima vista, paiono inadatti a un film dal carattere filo-orientale, è quindi opportuno riassumerne la trama in poche righe.

A Roma – più precisamente nel quartiere multietnico dell’Esquilino – giunge Xiao Mei (Yaxi Liu), una giovane cinese originaria della provincia del Fujian. La ragazza è in cerca della sorella, arrivata in Italia tempo prima e misteriosamente scomparsa. Le indagini di Mei conducono su una via trafficata dove, a poca distanza l’uno dall’altro, si trovano due ristoranti: uno italiano, l’altro cinese (un chiaro rimando a Delitto al ristorante cinese del 1981, diretto da Bruno Corbucci). Il primo è gestito da una coppia apparentemente normale – Alfredo (Luca Zingaretti) e Lorena (Sabrina Ferilli) – mentre il secondo è in mano al glaciale Wang (Chunyu Shanshan), il capo di una piccola cellula della Triade cinese.

Non passa molto tempo prima di scoprire che entrambi i locali celano affari loschi: Alfredo ha un amico intimo di nome Annibale (Marco Giallini), un vecchio mafioso reazionario, violento e xenofobo che odia i suoi vicini dell’Est e gestisce un grosso giro di immigrazione clandestina. Wang, invece, guadagna denaro con un bordello nascosto ai piani inferiori del suo palazzo. Mei, addentratasi con la forza nella casa chiusa, sospetta esclusivamente di Wang e del suo giro di prostituzione, per poi rendersi conto dell’esistenza di un legame tra le attività dei cinesi e quelle degli italiani. La ricerca della sorella la blocca tra incudine e martello.

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Marco Giallini nei panni di Annibale.

A un prologo esplosivo sulla falsariga dell’ottimo The Raid di Gareth Evans, che vede Xiao Mei menare le mani come una belva inarrestabile, segue la presentazione del secondo protagonista: Marcello (Enrico Borello), figlio di Alfredo e Lorena, nonché cuoco del loro ristorante. Il ragazzo è un sempliciotto imbranato che, suo malgrado, incrocia il percorso di Mei, finendo per scontrarsi con quella malavita di cui era sempre rimasto all’oscuro. I due, inizialmente controvoglia e separati da una notevole barriera linguistica, capiscono di dover collaborare se vogliono sopravvivere nel sottobosco malavitoso romano; quello stesso sottobosco in cui il padre di Marcello pare essere sparito proprio come la sorella della sua nuova amica.

A rendere interessante il rapporto tra i due personaggi principali è la sopracitata difficoltà a capirsi: Mei non parla italiano e Marcello non capisce un tubo di cinese, ed è verosimile e a tratti divertente vedere la prima utilizzare il sintetizzatore vocale di Google Traduttore per comunicare. Mainetti non si lascia spaventare dalla pigrizia – spesso mista a ignoranza – degli spettatori nostrani e decide giustamente di far parlare tutti gli attori orientali nella loro lingua, sottotitolando molte scene e prendendo le distanze da quel vizio solo ed esclusivamente italiano di pretendere il doppiaggio ovunque. Una grande nota di merito.

La città proibita è una storia di divergenze che mostra Italia e Cina in aperto conflitto, nonostante i giri di denaro reciproci. Si affronta un tema più che mai attuale, ovvero la paura – infondata – della colonizzazione da parte del diverso, “dell’invasore che viene da lontano”. Un timore che trova la sua incarnazione in Annibale, un uomo senza scrupoli che mette in atto uno dei tanti paradossi della politica di estrema destra: lo sfruttare chi si odia. Il mafioso, interpretato da un Giallini in grande spolvero, ha ribrezzo per gli extracomunitari, ma sa che può sfruttarli come manovalanza con false promesse di vitto e alloggio. Nella Roma cosmopolita immaginata da Mainetti – sovrapponibile alla realtà – Annibale è paranoico, crede (erroneamente) che i cinesi conquisteranno l’Occidente e ripudia certe contaminazioni. Solo quando è lui a essere l’oppressore, l’equilibrio tra sfruttatore e sfruttato può essere mantenuto. Doppi standard che fanno sempre comodo, specialmente nel mondo politico attuale.

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Se William Wyler fosse vivo, sarebbe un po’ confuso ma felice del gradito omaggio.

Come le etnie si mescolano nello splendido e scenografico melting pot dell’Esquilino, fotografato egregiamente da Paolo Carnera (Favolacce, Io capitano), così i generi si alternano nella sceneggiatura scritta dal regista stesso insieme a Stefano Bises e Davide Serino. Il rapporto con la cultura orientale avviene su più livelli: il kung fu film (Gōngfu piàn in cinese) parla con la commedia all’italiana e tutto culmina nella tragicommedia, senza dimenticare una componente romantica che si articola in una canonica storia d’amore al sapore di Vacanze romane di William Wyler per Mei e Marcello. Nonostante le buone intenzioni e alcune risate strappate nei frangenti più distesi, non si può dire di trovarsi davanti a qualcosa di entusiasmante, se parliamo esclusivamente della parte italiana con Ferilli e compagnia cantante. Per citare l’immortale Boris: “Il tuo umorismo oggi… Te lo posso dire? È molto italiano“.

Insomma, quella di Gabriele Mainetti è una strana chimera che – tra una botta di romanaccio e l’altra – va a toccare vari punti della cinematografia di Hong Kong, scomodando e prendendo a modello persino Wong Kar-wai (ma senza raggiungere mai la sua delicata poetica fatta di silenzi e non detto). Nelle sequenze action – le migliori in assoluto per costruzione e carica drammatica – si avvertono suggestioni da Johnnie To, John Woo e, soprattutto, Zhang Yimou. Un modo per dire che la fantasia nelle coreografie violentissime e furibonde non manca e intrattiene parecchio, complici le affascinanti movenze selvatiche di Yaxi Liu, stuntwoman da ben undici anni, qui al suo primo ruolo da attrice.

Avendo come obiettivo la lontana Asia, i due gioielli della produzione non possono che essere il reparto fotografico e quello di postproduzione. Le macchine da presa vengono controllate con estrema precisione e pulizia, anche quando i molteplici angoli di ripresa possono risultare ostici. Sono poi Francesco Di Stefano, supportato dall’ottimo lavoro di assistenza di Francesca Addonizio (Il ragazzo invisibile, Chiamami col tuo nome, Non credo in niente), a garantire un montaggio fluido e chiaro.

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Alla luce di quanto detto, La città proibita oscilla tra il già visto – girato con buona mano – e alcuni guizzi originali. Sono due le anime che reggono le vicende: quella action e quella romana. La prima guarda con ammirazione al cinema asiatico regalandoci alcune delle scazzottate più godibili e articolate che si siano mai viste in un prodotto italiano, la seconda soffoca le velleità internazionali, incasellando la storia nel panorama nazionalpopolare per renderla più accessibile al pubblico medio. Un compromesso che, ahimè, non sempre funziona, e che ancora una volta mostra una mancanza di coraggio. Se autori e colleghi avessero imboccato con più caparbietà la strada per l’Oriente avrebbero dato alla luce un’opera fresca e di rottura per l’industria italiana, ma optando per la comfort zone firmano un lavoro che si accontenta di essere “solo” gradevole. L’urlo di Xiao Mei non ha terrorizzato l’Occidente.

Nemmeno con questo peculiare ma stuzzicante limbo tra amatriciana e kung fu, il buon Gabriele Mainetti ha avuto il fegato di rischiare fino in fondo. Nonostante ciò, si può rimarcare con fermezza il suo talento nell’inventare narrazioni che non tutti – non in Italia almeno – hanno la voglia di proporre (vuoi per mancanza di risorse o di lungimiranza). In un mercato più che mai stagnante, l’innegabile e autentica passione cinefila può essere la chiave per costruire qualcosa di davvero innovativo (si pensi ai fasti di Mario Caiano con Il mio nome è Shangai Joe, matrimonio tra western e arti marziali). Stavolta abbiamo raddrizzato il tiro, al prossimo giro vediamo di fare centro.

Un ringraziamento speciale a Piperfilm e Golin

Nefasto Articoli
Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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